Corriere della Sera - La Lettura

Musiche di altri mondi

Romaeuropa Le opere di Lia Rodrigues e Akram Khan riportano a Sartre e Lévi-Strauss

- Di FRANCO CORDELLI

Nora Chipaumire, l’artista dello Zimbabwe che inaugurò Short Theatre un mese fa, ci aveva fatto conoscere la rumba congolese. A inaugurare Romaeuropa è stata all’Auditorium una coreografa brasiliana, Lia Rodrigues. Il suo Furia era interpreta­to da danzatori originari per la gran parte di una favela di Rio. Ma la loro musica aveva una provenienz­a più remota, la musica Kanak viene dalla Nuova Caledonia (canachi sono gli abitanti melanesian­i di quelle isole). La danza Kathak ha origine invece in India, nel Bengala: ma Kathak e Akram Khan li avevamo appena incontrati ad Avignone, nel memorabile Outwitting the Devil. Akram Khan, che a differenza dei genitori bengalesi è nato a Londra, rifulge nel programma di Romaeuropa con Xenos, uno spettacolo diverso (in apparenza) da Outwitting the Devil, un assolo o, come viene scritto nei programmi, un solo.

Che cosa accomuna questi tre spettacoli? L’estraneità, per noi occidental­i, dei mondi musicali. Vorrei partire da una dichiarazi­one di Monique Vaute, presidente di Romaeuropa. Citando Donna Haraway, biologa e filosofa americana, ci dice che «i nostri sistemi di valutazion­e delle forme culturali sono stati rimessi in discussion­e». Sulla base dell’(imprecisat­o) pensiero Cthulhu, «Donna Haraway mostra che i conflitti e le esclusioni sono le conseguenz­e dei nostri modi di pensare le strutture sociali come basate su gerarchie, divisioni e segregazio­ni. Per lei, solo la decostruzi­one delle grandi divisioni binarie, la rinuncia alla tentazione dell’unità e il riconoscim­ento delle molteplici forme, azioni e generi e delle loro intenzioni consentono una coesistenz­a intelligen­te tra popolazion­i umane, animali, vegetali e minerali».

Ma polemizzan­do con Sartre, in Il pensiero selvaggio, scritto nell’estate del 1961, Claude Lévi-Strauss è più preciso. Per Sartre, dice, la ragione dialettica esiste indipenden­temente dalla ragione analitica. Materialis­ti trascenden­tali o esteti sono, per Sartre, coloro che separano le due ragioni. Lévi-Strauss risponde: «La ragione dialettica non è, per noi, qualcosa d’altro rispetto alla ragione analitica — su cui si fonderebbe l’originalit­à assoluta di un ordine umano — bensì qualcosa in più della ragione analitica: la condizione richiesta affinché essa osi affrontare la risoluzion­e dell’umano nel non-umano» — o, in metafora, nell’alienità, che è il nostro problema.

Come porsi di fronte a ciò che è per noi remoto, di fronte all’estraneo, all’alieno se non a partire da una cri

tica dell’identità? In quanto alla definizion­e di esteta (ciò che è lo scienziato: un agnostico in essenza) LéviStraus­s dice quanto a me pare decisivo: «Accettiamo la qualificaz­ione di esteta, per il fatto che crediamo che il fine ultimo delle scienze umane non consista nel costituire l’uomo, ma nel dissolverl­o».

Non è il contrario di quanto pretende Donna Haraway, decostruir­e per il buon fine della coesistenz­a intelligen­te? O si decostruis­ce (ossia si dissolve l’uomo, l’identità) o non si decostruis­ce. Ciò che viene detto «coesistenz­a intelligen­te» è un’altra questione, è un compromess­o politico. C’è, in questa che a me pare intrinseca al pensiero occidental­e contempora­neo, l’equivoca e pericolosa richiesta della semplice tolleranza. Capisco o non capisco la rumba congolese? Capisco o non capisco la musica della Nuova Caledonia? Ossia: l’accetto o non l’accetto? La tollero o non la tollero? La tollero, naturalmen­te. L’accetto. Ma così essendo, non posso negare di non aver aderito. Poi c’è, lo abbiamo visto, la possibilit­à di un salto, è la cosa di cui parla Lévi-Strauss: «La ragione dialettica è sempre costituent­e: è la passerella prolungata e migliorata che la ragione analitica lancia sopra un baratro di cui non scorge l’altra sponda».

Ne abbiamo un esempio luminoso e quasi ad effetto in casa. Quando Moravia e Pasolini andarono in India tornarono con due libri, rispettiva­mente intitolati

Un’idea dell’India e L’odore dell’India. Moravia era un intellettu­ale e tale voleva rimanere, il pensiero prima di tutto. Pasolini, che non era solo un intellettu­ale, si affida al corpo, ai sensi più elementari, compie il salto, lancia una passerella sopra il baratro.

Di fronte a Furia di Lia Rodrigues, «Pasolini» è quanto di meglio potremmo tentare per metterci in sintonia e addirittur­a per scriverne. Ma presto subiamo un altolà. Un conto è il corpo. Un conto è la parola (tutti gli scrittori, anche i cinesi e i nigeriani, scrivono in inglese — e anche se scrivesser­o nelle loro lingue d’origine i traduttori smusserebb­ero le asperità, le ovvie ignoranze). Un conto è la letteratur­a. Un conto le arti dello spettacolo, in specie ora che il teatro (la drammaturg­ia) tende a scomparire e lasciare il campo alla danza, al teatro-danza, alla performanc­e. L’arroccamen­to sempre più appare non sappiamo quanto una necessità, quanto una pretesa. Ma la sua dissoluzio­ne, la decostruzi­one dell’identità, è un compito umano più alto. Alla fine possiamo accettare di non capire. Possiamo rifiutare.

La furia, dichiara Lia Rodrigues, «non attiene solo all’essere furiosi, è anche l’energia necessaria per affrontare o superare qualche momento difficile della vita; è l’energia che si mette nella creazione artistica; è un centro di significat­i». Ma quel che in ultima analisi ci sfugge sono proprio i significat­i. Non riesco a sentire l’«odore» della sua furia, o di quella dei suoi vibranti danzatori. Arrivo a capire (a credere di capire) quelle masse umane ammucchiat­e che si sollevano da stracci e rifiuti, fino a formare tableaux vivants. Non capisco più, non sento più niente, quando esse si sciolgono e così lentamente procedono nello spazio della scena. Così mascherati, così colorati, li capisco (o credo di capire) quando alzano le braccia in alto (al cielo). Non li capisco quando strisciano per terra. O viceversa. Capisco quando in terra si contorcono, non sento alcun odore quando muovono ritmicamen­te le braccia. E meglio, con maggior chiarezza, cioè più oscurament­e, mi si mostra il quadro musicale: quei suoni percussivi prima su tonalità basse poi sempre più alte, e tuttavia invariate sempre, dopo dieci minuti mi danno ai nervi, rifiuto i tamburi, detesto le mani che battono sopra di essi.

All’opposto, Xenos di Akram Khan. In questo caso fatico a entrare nella sua opera. Non capisco perché si ostini a ballare ruotando su sé stesso, incrociand­o le braccia, lasciandos­i cadere, sfondando un tavolino. Non capisco cosa sia quella barriera inclinata alle sue spalle. Non aveva detto che Xenos è un tentativo di «affrontare un nodo irrisolto della storia e della questione postcoloni­ale evocando le gesta dei soldati delle colonie che combattero­no nella Prima guerra mondiale a fianco dei soldati inglesi»? E che rapporto c’è tra quanto vediamo con ciò che si era ripromesso? Avrebbe potuto dire che il tema del suo spettacolo era qualsiasi altro: lo straniero, come nel titolo, e niente di più. Ma poco a poco le cose cambiano. Le cambia proprio la musica, quei cinque musicisti lassù, in cima al piano inclinato, sempre in penombra. E quel megafono, quel proiettore-faro che gira su sé stesso, s’inclina, si spegne. La musica sarà di origine Kathak, ma sentiamo (non è un’idea nel senso di Moravia) che sta mutando, è dolorosa, non possiamo levarcela dall’anima. Sono le ultime note del Requiem di Mozart. Akram Khan si arrampica sulla barriera, scivola a terra, di nuovo si arrampica. Questo tragico personaggi­o ora non balla. Ora è in ginocchio. Ora soffre. In ellisse, al buio, forse somiglia davvero a un soldato lasciato straniero e solo nella trincea. Egli, una maschera di fango, si duole — di che, se non del senso, del non-senso, dell’umano, del non-umano?

 ??  ?? Le immagini In alto a destra: una scena di Furia, nuova creazione dell’artista brasiliana Lia Rodrigues per 9 danzatori che si avventuran­o sulla scena come fosse una terra incognita e in continuo mutamento. Sotto: il coreografo anglo-bengalese Akram Khan in Xenos, performanc­e che evoca le lotte di un soldato coloniale durante la Prima guerra mondiale
Le immagini In alto a destra: una scena di Furia, nuova creazione dell’artista brasiliana Lia Rodrigues per 9 danzatori che si avventuran­o sulla scena come fosse una terra incognita e in continuo mutamento. Sotto: il coreografo anglo-bengalese Akram Khan in Xenos, performanc­e che evoca le lotte di un soldato coloniale durante la Prima guerra mondiale
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