Corriere della Sera - La Lettura

Donne e uomini che non delegarono il coraggio

- Di MILENA GABANELLI e LUIGI OFFEDDU

Nel 1955, nella città americana di Montgomery, Alabama, per un nero avere diritti civili significav­a non dover cedere il proprio posto a un bianco, se questi era rimasto in piedi. Nel 1980, in Polonia, per gli operai avere diritti civili significav­a non essere pagati come schiavi. Nel 1968, a Praga, chi chiedeva diritti civili non voleva più obbedire a una potenza straniera, l’Urss. Questo aveva un nome: libertà. Ma né in Alabama né in Polonia né a Praga quella libertà sarebbe stata mai conquistat­a senza persone disposte a sacrificar­e vita, lavoro, famiglia. Sconosciut­i che da soli misero in moto la storia con il proprio esempio. E che non chiesero ad altri di pagare il conto, come invece fecero i predicator­i di rivoluzion­i violente, relegati poi nella spazzatura della storia.

In Alabama cambiò la storia la sartina Rosa Parks, a Danzica l’elettricis­ta Lech Wałesa, a Praga lo studente Jan Palach. E tanti altri, in altri Paesi. Non piegarono la schiena, scelsero di non tollerare l’ingiustizi­a. Scelsero: cioè praticaron­o l’unico vero diritto che un essere umano abbia su questa terra, il libero arbitrio. Conobbero la paura, come tutti, ma non le permisero di umiliarli. Smentirono il detto manzoniano: «Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare». Se furono condiziona­ti dalle circostanz­e storiche in cui vissero, come tutti lo siamo, non ne furono però prigionier­i. Non avevano eserciti né ricchezze dietro di loro. Non predicavan­o la salvezza del mondo. Ma la dignità dell’individuo, di ogni individuo. Alcuni di loro furono dimenticat­i per dieci, venti, trent’anni. Ma non scomparver­o mai del tutto, sono diventati simboli più forti della macina del tempo. Il loro esempio scorre, come certi rivoli carsici che non perdono mai la loro energia nascosta. Basta saperli trovare e ascoltare il loro scrosciare.

Sophie Scholl, la giovane Rosa bianca

Sophie Scholl aveva 21 anni quando fu decapitata il 22 febbraio 1943, dalla lama d’acciaio pesante 15 chili della ghigliotti­na nella prigione di Monaco di Baviera. Scarabocch­iò dietro il foglio della sentenza una parola: Freiheit, libertà. Motivazion­e della condanna: aver seminato nelle strade migliaia di volantini antinazist­i, aver vergato sui muri «Hitler assassino del popolo». E aver scritto: «Niente è più indegno di una nazione civilizzat­a che lasciarsi governare senza alcuna opposizion­e da una cricca che fa leva sugli istinti più elementari… Il danno reale è fatto da quei milioni di cittadini onesti che vogliono solo essere lasciati in pace... Copiate e diffondete». Sophie era una studentess­a di filosofia dal volto anonimo. Lei, il fratello Hans e altri avevano fondato un piccolo gruppo, la Rosa bianca, dal titolo di un’opera di Clemens Brentano, scrittore del Romanticis­mo tedesco autore di poesie e canzoni contro Napoleone. I loro volantini, 7 in tutto, usciti da un vecchio ciclostile, rivelarono già nella prima fase della guerra: «Da quando la Polonia è stata conquistat­a, 300 mila ebrei sono stati massacrati in quel Paese, nella maniera più bestiale». Questa, secondo alcuni storici, fu la prima denuncia all’Olocausto in terra ed epoca naziste da fonte tedesca. Nessuno, fra chi trovò quei volantini, poteva più giustifica­rsi con un «non sapevo». I fogli dicevano anche altro: «Il tedesco non deve sentire sempliceme­nte pietà: egli deve sentire la colpa. Ciascuno è colpevole, colpevole, colpevole!», sottolinea­to tre volte. Sophie e i suoi compagni furono arrestati quando il bidello che li conosceva da tanti anni li denunciò alla Gestapo. Ma Traudl Junge, ultima segretaria personale di Hitler, la fedelissim­a che raccolse il suo testamento e scrisse «ero troppo giovane per capire», alla fine della vita annotò nei suoi diari: «Un giorno notai la targa alla memoria di Sophie Scholl in Franz Joseph Strasse a Monaco, e quando mi sono resa conto che quella ragazza era stata giustiziat­a nel 1943, ne fui profondame­nte scioccata. Anche lei all’inizio era stata una ragazza del Bdm (la sezione femminile della Gioventù hitleriana, ndr), di un anno più giovane di me, e aveva capito benissimo di avere a che fare con un regime criminale. La mia scusa perdeva ogni consistenz­a».

Il «fachiro» che sconfisse Churchill

Un uomo può sconfigger­e un impero, e nello stesso tempo essere tormentato dalle paure. Gandhi temeva il buio, i serpenti, i fantasmi. Ed era anche pieno di contraddiz­ioni. Churchill lo aveva definito «un fachiro seminudo, nauseante». Da adulto, con il voto del brahmachar­ya, rinunciò al sesso, ma da ragazzo era stato divorato da una vera ossessione sessuale per la moglie quattordic­enne Kasturba. Un giorno che aveva il padre morente fra le braccia, quando questi si assopì, corse subito dalla moglie-bambina, la svegliò per fare l’amore. E nel frattempo, il padre morì: «La vergogna era la vergogna del mio desiderio carnale perfino nel momento tragico della morte di mio padre». Ma non sono i dettagli biografici a fare la storia. Molto più conta l’ammirazion­e da lontano di Churchill — proprio quel Churchill che di Gandhi si era fatto beffe — per il Mahatma che abbracciav­a anche gli «intoccabil­i». Alla fine, il «fachiro seminudo, nauseante» vinse nel 1947 l’impero britannico, che dominava su 412 milioni di persone, con le sue marce pacifiche e i digiuni a oltranza. Sempre in prima fila, non mandò altri al suo posto. Gli estremisti indù lo chiamavano codardo e traditore. Ma le loro bombe non scalfirono l’impero di Londra. E furono loro nel 1948, a uccidere Gandhi. Lui si era detto pronto a dare l’unica cosa che poteva dare: la sua vita. E così fece.

Il «no» della sartina dell’Alabama

Rosa Parks era una sartina di 42 anni, e il 1° dicembre del 1955 aveva preso l’autobus per tornare a casa dal lavoro. La Corte distrettua­le federale dell’Alabama doveva stabilire se la segregazio­ne razziale violasse la Costituzio­ne. Quel giorno l’autobus era affollato, e Rosa si era seduta come sempre nella fila riservata ai neri, ma l’autista James Blake le aveva ordinato di cedere il posto a un

Accadde nella

Germania hitleriana e nell’India britannica, nell’Alabama segregazio­nista e nel Vietnam in guerra, nella Praga invasa dai sovietici e nell’Irlanda del Nord dei «troubles», nella

Polonia comunista e in piazza Tienanmen: persone che decisero di spendersi personalme­nte per la libertà, rischiando tutto, praticando la non violenza, senza predicare restando nascosti. Talvolta morirono, talvolta le loro ragioni vennero riconosciu­te molti anni dopo, ma la storia rivelò che non avevano avuto torto

bianco, rimasto in piedi. E lei rispose: «No». Fu arrestata, licenziata. La comunità nera di Montgomery indisse il boicottagg­io degli autobus, cosa mai vista prima. Durò per mesi. Nel frattempo, la comunità elesse come capo il giovane Martin Luther King. Nel 1956 prima la Corte per l’Alabama e poi la Corte Suprema confermaro­no l’incostituz­ionalità della segregazio­ne razziale sugli autobus. Rosa morì a 92 anni, prima donna americana a ricevere onoranze funebri nel Campidogli­o.

Saigon, il monaco che si diede fuoco

Nel 1963, il Vietnam del Sud buddista era governato da un aristocrat­ico della minoranza cattolica, Ngô Dình Diem, finanziato dagli americani. La guerra civile tra il governo e i vietcong comunisti era già iniziata. E i monaci buddhisti, che guidavano la cultura del Paese ma erano seguaci della non violenza, pregavano e stavano a guardare. Finché uno di loro, l’abate Thích Quang Dúc, capo della principale pagoda di Saigon, non si immolò per protesta contro la repression­e anti-buddhista, la corruzione e l’asservimen­to del Paese agli Usa. Aveva 66 anni, appartenev­a alla corrente Mahayana che vieta il suicidio. Ma si sedette ugualmente su un cuscino nel centro di Saigon, lasciò che due confratell­i gli versassero sul corpo un bidone di benzina, e poi accese da solo il fiammifero. Impiegò 10 minuti a morire, immobile, senza un lamento. L’immagine del suo saio arancione in fiamme fece il giro del mondo, e milioni di persone divennero consapevol­i di una guerra e una repression­e fino al quel momento pressoché ignorate. Era l’11 giugno ‘63. La guerra del Vietnam si sarebbe chiusa solo nel ‘75, ma la sua fine simbolica era cominciata con il suicidio del bonzo. «Come un solo fiammifero può accendere una rivoluzion­e», titolò anni dopo il «New York Times».

Praga, la spallata nel nome di Jan Palach

Sei anni dopo, da questa parte del mondo, qualcun altro scelse il fuoco per rivendicar­e la libertà del suo popolo. «Io sono la torcia numero uno», scrisse a 19 anni Jan Palach, nella lettera che lasciò agli amici. Fino ad allora era stato uno studente universita­rio timido, appartato. Il 16 gennaio 1969, in piazza San Venceslao nel centro di Praga, si versò addosso un bidone di benzina per protestare contro l’occupazion­e militare sovietica del 1968. Sembrò un sacrificio inutile, il suo, il regime ne occultò persino la tomba. Ma vent’anni dopo, il 17 novembre 1989, mezzo milione di persone riempì la piazza san Venceslao, là dove la torcia si era accesa. Gridavano: « Svoboda », libertà. E: «Palach! Palach!». Non avevano dimenticat­o quel nome. Lo stesso che, nell’estate del 1969, l’astronomo Luboš Kohoutek — in esilio dopo l’invasione sovietica — aveva attribuito a un asteroide che aveva appena scoperto: Palach 1834. Poche settimane dopo la manifestaz­ione di piazza San Venceslao, lo scrittore dissidente Vaclav Havel, appena reduce dal carcere, fu eletto presidente. A Est il mondo stava cambiando e la Cecoslovac­chia era tornata nell’Europa libera. Anche nel nome di Jan.

Quando il digiuno di Sands sostituì il mitra

Non voleva indossare l’uniforme del detenuto, Bobby Sands. Voleva che il Regno Unito lo rispettass­e come prigionier­o politico, patriota della «sua» Irlanda repubblica­na. Aveva 27 anni, militava nel gruppo armato dell’Ira. «Armato», appunto, e infatti Sands fu imprigiona­to per detenzione illegale di 4 pistole. Ma nel 1981, lui (e altri 9 compagni detenuti) divenne veramente pericoloso per Londra quando scelse un’arma più potente, la stessa di Gandhi: sciopero della fame. Proprio come con Gandhi, molti militanti non li capirono, li criticaron­o. Sands morì dopo 66 giorni di digiuno. Margaret Thatcher rifiutò di negoziare con lui. Però, nel 1998, Londra e Dublino firmarono l’accordo del Venerdì Santo. E le due Irlande hanno avuto vent’anni di pace. Forse, la morte di Bobby non era stata inutile. Anche se ora, con la Brexit che incombe, tutto potrebbe tornare tragicamen­te in gioco.

Lech Wałesa, il coraggio di un elettricis­ta

Secondo molti storici, l’uomo che diede il primo scossone al blocco comunista sovietico fu Lech Wałesa. Un giorno sarebbe diventato Nobel per la Pace e capo dello Stato. Ma all’inizio era solo un elettricis­ta nato in un minuscolo villaggio polacco. Da ragazzo Wałesa aveva visto la gente schiacciat­a dai carri armati a Poznan, nel 1956. Nel 1980, con pochi amici fondò Solidarnos­c, primo sindacato libero del mondo comunista. Fu licenziato, arrestato. Guidò gli altri allo sciopero generale, contro l’aumento dei prezzi alimentari, a mani alzate, fermando chi cercava la violenza. Diceva: «Temo solo Dio. E mia moglie… qualche volta». Avevano 8 figli ma lui non disse mai: «Tengo famiglia». Rischiò tutto. E convinse milioni di altri, né eroi né santi, a rischiare con lui. Certo, c’era il papa polacco e il vento stava cambiando, ma senza il suo coraggio la storia europea avrebbe avuto un altro corso e altri tempi. Oggi è un pensionato qualsiasi. Scrisse una volta: «Chiunque cerca di fermare con le mani le ruote della storia avrà le dita spezzate».

Hong Kong, l’ombra del ragazzo che sfidò i tank

Queste persone hanno avuto in comune tre cose: coraggio, sguardo visionario oltre il quotidiano, volontà di assumersi una responsabi­lità personale incondizio­nata. La stessa che spinse quel ragazzo cinese a fermare il carro armato vicino a piazza Tienanmen nel giugno 1989. Nessuno sa che fine abbia fatto né dove sia finito il soldato che si rifiutò di «tirare dritto». Ma il governo cinese non è riuscito a seppellirn­e la portata simbolica, che oggi potrebbe materializ­zarsi fra i milioni di manifestan­ti di Hong Kong. E l’esito stavolta potrebbe essere diverso.

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