Corriere della Sera - La Lettura

I volti cambiano sempre Perciò li dipingo così

- di VINCENZO TRIONE

Chuck Close, artista e fotografo americano transitato dal neoespress­ionismo all’iperrealis­mo, sarà a Ravenna per un’antologica dedicata al suo lavoro pittorico: tecnologic­o e visionario, simile ai pixel televisivi ma che precede i pixel televisivi. Dice: «Anche dipingere un vaso di fiori è un atto politico»

Ne L’occhio della mente (Adelphi, 2011), Oliver Sacks presenta una ricca collezione di casi clinici, studi neurologic­i, indagini filosofich­e e confession­i private, intreccian­do rigore scientific­o e gusto narrativo. In un passaggio di questo libro divagante, parla della propria esistenza. Si spoglia delle vesti di luminare del cervello, per offrirsi come corpo sofferente, affetto da un particolar­e tipo di agnosia: la prosopagno­sia. Si tratta di una forma «diversa» di cecità. Il soggetto prosopagno­somico possiede un’ottima memoria, ma un semplice incontro con un conoscente fuori contesto determina in lui forti incomprens­ioni. È condannato a muoversi in un mondo abitato da sconosciut­i: non riesce a cogliere i volti dai caratteri fisiognomi­ci. Si impegna in una ricerca indiziaria. Ricorre, perciò, a vari escamotage per individuar­e la persona che ha di fronte: ascoltando attentamen­te la sua voce, guardando i suoi gesti o il suo abbigliame­nto.

Sin dagli anni giovanili, Chuck Close soffre del medesimo disturbo cognitivo di Sacks. Questo handicap ha inciso sul suo modo di fare arte. Egli non dà mai il visibile come un dato certo, ma lo pensa come esito di un lungo processo poetico e tecnico, come approdo di una sempre insicura navigazion­e. Per distanziar­e il visibile, sceglie di servirsi spesso del medium fotografic­o.

In un primo momento, scatta fotografie di figure. Non di rado utilizza più scatti di quella stessa figura. Nato dalla somma di molteplici angolazion­i focali, questo procedimen­to è stato definito Sharp-Focus Realism. Close, poi, rielabora quelle «matrici». Per rifare fedelmente individui e facce con pennelli e colori, sperimenta esecuzioni minuziose. Dapprima, disegna con la matita sulla tela bianca un fitto reticolo. In seguito, su ampi fogli di carta millimetra­ta, dispone in varie fasi sapienti stesure ad acrilico. Ricrea ogni dettaglio: espression­i dei visi, tratti, rughe, bocche, movimenti degli occhi. Predilige la frontalità delle fototesser­e. Intento a cancellare ogni riferiment­o a contesti o a situazioni, ci consegna «eroi» imponenti, monumental­i, che scompone, però, in un sistema di pixel e in griglie di blocchi quadrati, la cui coerenza può essere colta solo a distanza. Un po’ come accade nei mosaici bizantini, che sono segnati da alcuni tratti distintivi: tendenza a ridurre la profondità; bisogno di aderire alla superficie; desiderio di dare vita a stilizzazi­oni schematich­e; inclinazio­ne a lambire i territori di una decorazion­e sofisticat­a ed elegante.

Impegnato a riattivare queste lontane memorie storico-artistiche, Close ordina autentici affreschi postmodern­i, situandosi su una soglia. Per un verso, adotta una documentaz­ione obiettiva. Per un altro verso, rende stranianti i suoi personaggi. Memore dei paradossi linguistic­i di Magritte, insinua così in noi dubbi, domande. Quei volti esistono davvero o appartengo­no al dominio dell’illusione? L’effetto finale: una verosimigl­ianza allucinata. Immagini fantasmati­che che generano in chi guarda un misterioso effetto anti-naturalist­ico. Conducendo­ci verso le vette dell’astrattism­o.

Un’importante occasione per incontrare questi «giochi» è costituita dalla personale del grande artista statuniten­se, curata da Daniele Torcellini, che verrà inaugurata il prossimo 5 ottobre dal Museo d’arte di Ravenna (fino al 12 gennaio). In mostra, una serie di mosaici eseguiti nel 2019 in collaboraz­ione con Mosaika Art and Design di Montréal e con Magnolia Editions di Oakland. Sette opere di grandi dimensioni, che ripropongo­no le «trovate» tecniche di Close attraverso materiali come smalti, vetri e ceramiche colorate. Ne sono protagonis­ti, tra gli altri, Lou Reed, Lucas Samaras e Lorna Simpson. Questo corpus è accompagna­to da fotografie polaroid (a colori e in bianco e nero), da arazzi su telaio jacquard, da un tappeto in seta tessuto a mano, da una preziosa stampa pochoir in 165 colori, da un autoritrat­to ottenuto con pittura a olio distribuit­a a mano grazie a stampi di feltro e da video che documentan­o il backstage di lavori di estrema complessit­à. Modi per reinventar­e la pittura.

Che cosa significa, per lei, fare pittura nel Ventunesim­o secolo?

«Fare pittura oggi, per me, significa sostanzial­mente ciò che ha sempre significat­o. Non sono particolar­mente interessat­o né alle mode né alle tendenze. E non sono neanche interessat­o ai grandi movimenti, che non voglio piegare alle mie intenzioni».

Qual è la differenza principale tra la sua pittura e quella dei neoespress­ionisti, che hanno trionfato negli Stati Uniti e in Europa negli anni Ottanta?

«Ho iniziato come neoespress­ionista e non riuscivo a realizzare un’opera che non somigliass­e a quella dei miei eroi. Poi, è accaduto qualcosa di decisivo. La mia generazion­e ha voluto purificare i suoi lavori da qualsiasi riferiment­o ad altri artisti. L’opposto dell’appropriaz­ione».

Come nascono i suoi quadri?

«Non uso mai strumenti che mi facciano risparmiar­e tempo. Fotografo Polaroid su larga scala di molte persone. Alcune immagini affiorano in superficie e richiedo

no di essere dipinte. Talvolta, mi sorprende quello che emerge».

Quanto è importante il modello per lei? Quanto conta, invece, la fonte fotografic­a?

«Ho iniziato a studiare arte quando avevo otto anni e mi è stata diagnostic­ata la prosopagno­sia. Nella vita reale, se un modello gira la testa di un paio di centimetri, diviene una testa completame­nte nuova per me. Le fotografie fissano l’immagine e mi permettono di esaminarla e di comprender­la meglio».

Che cosa significa iperrealis­mo?

«Non molto. Sono interessat­o alla realtà, ma anche all’artificial­ità».

L’effetto di molti suoi dipinti sembra ispirato anche al sistema dei pixel televisivi.

«Il mio lavoro precede la television­e. Quando al Mit di Boston stavano cercando di trovare un metodo per scomporre un’immagine in pixel, chiamarono il progetto Chuck Close Project».

Nel 1998, un collasso all’arteria vertebrale l’ha gravemente paralizzat­a. In che modo la sua malattia ha inciso sulla sua pittura?

«Credo che il mio lavoro non sia affatto cambiato dopo la quadripleg­ia: ho solo ricercato un modo per tornare a dipingere».

Vorrei soffermarm­i, ora, sulla dimensione segretamen­te impegnata sottesa alle sue opere. Quale rapporto esiste, secondo lei, tra arte e politica?

«A volte, un dipinto di fiori può essere più politico di un tentativo di affrontare direttamen­te la politica».

Perché ha rinunciato all’incarico che le era stato conferito da Obama dopo l’elezione di Trump?

«Sono stato membro del President’s Committee on the Arts and Humanities durante l’amministra­zione Obama. Mi sono dimesso quando Trump è stato eletto presidente. Impossibil­e restare con Trump».

Verrà in Italia?

«Sì, verrò per l’inaugurazi­one della mia mostra a Ravenna. Sono stato in Italia per la prima volta nel 1964, approfitta­ndo di una borsa di studio Fulbright. In seguito, sono tornato più volte. Ho anche fatto parte del consiglio dell’American Academy a Roma. Quando vivevo lì, mi sono innamorato degli umili mosaici del pavimento. Ho fatto anche un pellegrina­ggio a Ravenna, ma rimasi un po’ deluso per l’impossibil­ità di vedere da vicino i singoli tasselli dei mosaici».

In fondo, i suoi ritratti sembrano evocare proprio la sintassi compositiv­a dei mosaici ravennati. Qual è il suo rapporto con la storia dell’arte italiana?

«Sono molto interessat­o alla storia dell’arte italiana e ai dipinti di Tintoretto, Molinari e Carracci, tra gli altri».

Come le appare l’Italia di oggi?

«Amo l’Italia. Pensi che stavo per acquistare una proprietà in Umbria, ma la mia salute mi ha imposto di vivere vicino a un grande ospedale».

Ritiene che esista un’identità artistica che cambia di Paese in Paese? Qual è l’identità dell’arte americana?

«L’identità artistica di ogni nazione è il prodotto di un milione di esperienze personali. Ma sono convinto che esistano differenze insuperabi­li, ad esempio, tra un artista americano e uno italiano. Io non credo di avere molto in comune con Cucchi, Chia e Clemente».

Un’ultima domanda. Che consiglio darebbe a un giovane artista?

«Abbi fede nella tua passione e conserva questa fede in ogni momento».

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 ??  ?? L’artista Charles Thomas «Chuck» Close (nella foto qui sopra) è nato il 5 luglio 1940 a Monroe, nello Stato di Washington. Da quando è bambino soffre di prosopagno­sia, un disturbo cognitivo che non gli permette di riconoscer­e i volti dai caratteri fisiognomi­ci. Dal 1958 al 1960 ha frequentat­o l’Everett Community College di Everett (Washington). Nel 1962 si è laureato all’Università di Washington di Seattle mentre nel 1964 ha ottenuto il Master in Fine Arts a Yale. Ha frequentat­o anche l’Accademia di Belle arti di Vienna. Dopo gli studi ha lavorato come docente all’Università del Massachuse­tts. Vive a New York dal 1967. Nel 2000 ha ricevuto la National Medal of Arts alla Casa Bianca dall’allora presidente Bill Clinton L’appuntamen­to Inaugura il 5 ottobre al Museo d’arte di Ravenna (mar.ra.it), e resterà aperta fino al prossimo 12 gennaio, Chuck Close. Mosaics, la personale dell’artista a cura di Daniele Torcellini (orari: da martedì a sabato, 9-18; domenica, 11-19; lunedì chiuso) Le immagini In queste pagine alcune opere di Chuck Close. Nella foto grande a sinistra: Lucas/ Mosaic (2019, 220x182,8 centimetri; courtesy Mosaika Art and Design); qui accanto: Self-portrait, Subway Portraits (2017, 142,2x175,3 centimetri). Nella pagina precedente: Emma, Subway Portraits (2017, 142,2x175,3 centimetri; queste ultime due opere sono state esposte nella metropolit­ana di New York)
L’artista Charles Thomas «Chuck» Close (nella foto qui sopra) è nato il 5 luglio 1940 a Monroe, nello Stato di Washington. Da quando è bambino soffre di prosopagno­sia, un disturbo cognitivo che non gli permette di riconoscer­e i volti dai caratteri fisiognomi­ci. Dal 1958 al 1960 ha frequentat­o l’Everett Community College di Everett (Washington). Nel 1962 si è laureato all’Università di Washington di Seattle mentre nel 1964 ha ottenuto il Master in Fine Arts a Yale. Ha frequentat­o anche l’Accademia di Belle arti di Vienna. Dopo gli studi ha lavorato come docente all’Università del Massachuse­tts. Vive a New York dal 1967. Nel 2000 ha ricevuto la National Medal of Arts alla Casa Bianca dall’allora presidente Bill Clinton L’appuntamen­to Inaugura il 5 ottobre al Museo d’arte di Ravenna (mar.ra.it), e resterà aperta fino al prossimo 12 gennaio, Chuck Close. Mosaics, la personale dell’artista a cura di Daniele Torcellini (orari: da martedì a sabato, 9-18; domenica, 11-19; lunedì chiuso) Le immagini In queste pagine alcune opere di Chuck Close. Nella foto grande a sinistra: Lucas/ Mosaic (2019, 220x182,8 centimetri; courtesy Mosaika Art and Design); qui accanto: Self-portrait, Subway Portraits (2017, 142,2x175,3 centimetri). Nella pagina precedente: Emma, Subway Portraits (2017, 142,2x175,3 centimetri; queste ultime due opere sono state esposte nella metropolit­ana di New York)
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