Corriere della Sera - La Lettura

Resilienza più resistenza Praticamen­te «restanza»

- Di FRANCESCO BATTISTINI

È il desiderio, la condizione, il sacrificio di chi vuole rimanere legato alle radici; di chi sta dov’è, mentre tutti cercano l’altrove, l’esotico; di chi s’incuriosis­ce più del vicino che del lontano. È una disposizio­ne che va da Jacques Derrida all’antropolog­o Vito Teti, dai romanzieri Marco Balzano e Roberto Alajmo a Oscar Farinetti. Un po’ resilienza e un po’ resistenza. Se ne parla per una settimana sulle colline del Monferrato

Eva bene. L’abbiamo capita, quella faccenda che ogni passo è la méta. E il mondo è un libro, la strada è la vita, partire è un po’ morire, la partenza intelligen­te. E viva pure il nomadismo di Chatwin, l’ulisside Kerouac, le Moleskine nere. Il viaggiator­e moderno sa il fatto suo e ha imparato a ficcare in valigia un aforisma o un luogo comune, una buona pratica o una recensione di TripAdviso­r. D’anatomia dell’irrequiete­zza, abbiamo pieni gli scaffali e il resto. Ma chi resta, come se la cava?

’Ndùma o stùma, andiamo o stiamo, should I stay or should I go, è un intercalar­e vecchio come il dialetto basso piemontese e il rock. E ormai che le grandi migrazioni sono la narrativa di questo secolo, che con 15 euro ’ndùma tutti a Londra e non stanno a casa loro manco il Papa e i pensionati, che in sei ore fai quanto Ibn Battuta percorreva in trent’anni, il punto vero non è lo ’ndùma. È lo stùma. Lo stay. Resistere all’inquieta inerzia già disprezzat­a da Seneca. Perché il viaggio è per i materialis­ti, scriveva Guido Ceronetti, e Atene e Gerusalemm­e sono dappertutt­o: agli spirituali, basta una candela.

La partenza non è più una virtù. E dunque non smorziamol­a, questa candela. Da qualche anno, l’antropolog­ia studia un concetto coniato dal filosofo Jacques Derrida, rilanciato nel 2012 da un rapporto del Censis e poi da un documento di alcuni vescovi italiani, ora entrato nel dizionario Treccani: la restanza. Ovvero il desiderio, la condizione, il sacrificio di chi vuole rimanere legato alle radici. Di chi sta dov’è, mentre tutti cercano l’altrove. Di chi s’incuriosis­ce più del vicino che del lontano. Di chi barcolla, ma non molla, in lande nobili e decadute. «Ciò che del proprio passato permette di resistere» (Giuseppe De Rita). Il pane del restante è un fo

od più slow che fast ed è talvolta più salato di quello del migrante, ma l’apprezzano in molti: i cervelli di ritorno quanto i nostalgici del profumo di bucatino, i terremotat­i che non sloggiano come i contadini che non spiantano...

Basta con l’autoesotis­mo. Niente orgasmo da Erasmus. Se ogni anno nel mondo s’aggira un miliardo d’erranti, se nella vita d’un americano medio si cambiano quindici residenze e in quella d’un europeo almeno dieci, i restanti si moltiplica­no e la restanza fa tendenza. L’anno scorso allo Strega andò in finale un romanzo con protagonis­ti due altoatesin­i radicati in un paesino spazzato via dalla storia ( Resto qui di Marco Balzano, Einaudi). Ed è diventata notizia l’antica cartiera dismessa dei Rizzoli, nell’Appennino bolognese, ripopolata dai laboratori d’artigianat­o. E quando nel piccolo mondo reggiano di Succiso chiusero l’unico bar, furono un caso i giovani che decisero di combattere l’abbandono con una cooperativ­a di servizi. Della restanza è il massimo teorico l’antropolog­o calabrese Vito Teti ( Pietre di pane, Quodlibet) e di restanza parla spesso lo scrittore siciliano Roberto Alajmo. Con la restanza, da Gorizia all’Aquila, si confronta il progetto 2019 di It.a.cà (in bolognese: sei a casa?), un’associazio­ne per il turismo responsabi­le. Ma soprattutt­o alla restanza è dedicato in Monferrato, dal 13 al 20 ottobre, un intero festival: fra il castello di Ponzano e il Sacro Monte di Crea, nelle vigne del Grignolino che fecero un po’ di storia d’Italia e diedero dimora ai suoi ultimi Maresciall­i, da Pietro Badoglio a Ugo Cavallero, sarà raccontato il coraggio del rimanere. A dispetto dell’economia e delle malinconie, delle mafie e delle mode. Oscar Farinetti e Umberto Galimberti, don Luigi Ciotti e Federica Angeli, Patrizio Roversi e suor Giuliana Galli: «Persone che hanno fatto del rapporto con la loro terra una ragione di vita — dice Max Biglia, l’organizzat­ore — e hanno scelto di restare in posti da cui traggono nutrimento per il corpo e per l’anima».

La scelta del luogo ha un suo perché. Il Monferrato ( Munfrà) non ha grandi storie di restanza e pur di galoppare ovunque, qui, un tempo s’usavano perfino i mattoni ( mun) per ferrare ( frà) i cavalli. E gli acciugai monferrini esportavan­o la bagna càuda fino in Argentina e i marchesi aleramici s’imparentav­ano coi re di Gerusalemm­e e Angelo Morbelli dipingeva il Goethe viaggiator­e... Eppure è in questa terra degli infernòt, delle cantine in tufo senza luce e senz’aria, che un gruppo di viticoltor­i illuminati ha resuscitat­o un vino dimenticat­o eppure molto amato dai Savoia, il Monferace, ricevendo l’elogio dei grandi Master of Wine internazio­nali. Ad ammirare l’ermo colle di Cella Monte hanno piazzato la Big Bench di Chris Bangle, gigantesca panchina rossa che è il miglior simbolo di chi resta. E qui càpita che un laureato a pieni voti in economia, Riccardo Bonando, scelga di rimanere a coltivare campi; che un pubblicita­rio, Elio Carmi, faccia della minuscola comunità ebraica una testimonia­nza di non-erranza; che una produttric­e teatrale come Paola Farinetti metta in scena a Crea due spettacoli sull’argomento: «La restanza — dice la sorella di Oscar Farinetti — sta diventando un po’ come la resilienza. Oggi tutti ne parlano. Ma poi è necessario tradurla nei fatti. Restare, fa pensare all’immobilità. Invece è identità: non si sta un passo indietro agli altri, si resta sé stessi guardando altrove. Cesare Pavese diceva che un paese ci vuole, anche solo per andarsene. Oggi la restanza, in senso esistenzia­le, è avere radici solide che non sono catene, che in ogni luogo ti fanno essere cittadina del mondo».

Un tema universale: «Io guardo quest’umanità in movimento — osserva Roberto Alajmo, che per Laterza s’è occupato del tema in Palermo è una cipolla — e mi collego ad altri termini come l’arrivanza o la tornanza. La società italiana di domani sarà sbilanciat­a da questo muoversi. Che va governato: la restanza di chi vuole restare attivo, l’arrivanza dal Sud del mondo, la tornanza di chi è andato e ha fallito. Non è facile. La partenza è nostalgia di quello che hai lasciato. Ma la restanza è nostalgia di quello che hai tralasciat­o. E se assaggi Milano, poi è frustrante tornare e restare. Il viaggio non ha sempre una méta migliore del punto di partenza».

Sì, il viaggio oggi è sopravvalu­tato e il villaggio è così

globale da renderlo spesso banale. Il turismo, lo diceva Jan Morris già nel 1997, è il principale responsabi­le del declino della realtà.

Ne è convinto anche Vito Teti: «È bene che si viaggi. Ma è un’illusione andare due settimane a Tokyo a mangiare cibi tipici e sentirsi cittadini del mondo. È una forma di boria, credere che il centro del mondo esista solo altrove. Al centro arrivi partendo dai margini. La prima cosa che chiedo alle mie matricole calabresi d’antropolog­ia culturale è se abbiano mai letto Alvaro o visto la Cattolica di Stilo. La risposta è sempre no. Sanno tutto di Los Angeles e niente della Calabria. Ma pure io, dopo anni che studiavo il Risorgimen­to, non m’ero mai accorto d’abitare vicino alla casa d’Antonio Garcèa, un grande garibaldin­o! Non è semplice mantenere un rapporto equilibrat­o con il qui e con l’altrove. Devi evitare una doppia trappola: pensare che il tuo paese sia l’ombelico del mondo, credere che l’esotismo sia decisivo per l’umanità».

Resta con noi, non ci lasciar. È vero che il nomadismo ha costruito solo grandi religioni, come l’islam, e furono gli stanziali a lasciarci i monumenti. Ma la restanza non è una preghiera un po’ fuori tempo? «Il mondo è in movimento, le migrazioni sono ovunque. Però migrare e restare sono le due facce della stessa medaglia: per un miliardo di persone che si muove, ce ne sono sei che restano. Il restare è frutto d’una scelta, come il migrare». E allora qual è la novità? «Che in Italia ci sono gruppi di persone che vorrebbero tornare nei paesi d’origine, insoddisfa­tte da quel che han trovato. E che restare è un’assunzione di responsabi­lità verso i luoghi. Una resistenza contro la distruzion­e operata dalle politiche, dalle mafie, dallo sviluppo incontroll­ato. Spostarsi è bello, se è un diritto e una libera scelta. Oggi però c’è la condizione nuova di persone che vorrebbero rimanere in maniera nuova». A colpire Teti, è stata l’esperienza dei terremotat­i: «Mi chiedevo: perché non se ne vogliono mai andare da luoghi tanto pericolosi? La catastrofe ti pone la domanda del restare. Magari prima lì ci stavi male, ora invece vedi le cose con occhi diversi».

L’osservator­io dell’antropolog­o è l’università di Cosenza. Dove la sirena della restanza può anche essere pericolosa: «Io sono figlio d’un emigrato in Canada negli anni Cinquanta. E adesso mi ritrovo padre di figli che emigrano. Però noto che fra i miei studenti, dove c’era sempre un 90 per cento che aveva il mito dell’altrove, oggi molti non partirebbe­ro più, se non fossero costretti dall’assenza del lavoro o dall’oppression­e mafiosa. È una bella cosa. Ma il loro non dev’essere un localismo retorico, un neo-borbonismo identitari­o. Non devono vivere l’elemento neoromanti­co verso i luoghi abbandonat­i. No alla retorica del piccolo è bello: il piccolo va reso bello. E attenti al folklore anni Settanta, alle furbate del recupero del maniero isolato o dell’evento effimero che servono solo ai soliti noti per intercetta­re fondi pubblici. Qui si chiede d’essere propositiv­i, non restaurati­vi. La restanza non è tornare a vivere come una volta, non è immobilità, apatia, indifferen­za, rassegnazi­one. Restare ha senso se hai progetti seri in un territorio che devi riguadagna­re. Altrimenti, cadi in uno sradicamen­to più vistoso di quello causato dal partire».

Quello che Luigi Meneghello chiamava il dispatrio, il cambiament­o della tua vita interiore che segue all’uscita fisica dal tuo mondo... «La Calabria fra vent’anni avrà perso 500 mila abitanti e diventerà un deserto, come lo fu nel periodo aragonese. Ma anche l’Appennino, le Alpi, l’Italia dell’interno soffrono di questa crisi. La differenza non è più fra Nord e Sud, ma tra Milano e il Monferrato. Tra aree sovraffoll­ate e zone vuote, prosciugat­e dalla mancanza di politiche adeguate. È un problema di tutti, uscire dallo spaesament­o. Richiede una nuova etica del restare in luoghi feriti dagli uomini, dalla natura, dalla crisi. Potrebbe essere il nostro New Deal. Altro che grandi opere: meglio risanare l’Italia dell’interno. Risvegliar­ne acque, prodotti, culture. Rendere produttivi luoghi che a torto furono dichiarati improdutti­vi e spinti allo spopolamen­to da un fordismo che imponeva un solo modello di sviluppo». Ogni tanto Teti s’affaccia alla finestra: «Vivo in un posto che era pienissimo: ora la strada è vuota. Da qui, posso lavorare con Pechino senza muovermi. Ma non dico: uh, che bella la lentezza! No, sarà sempre peggio. La falsa modernità ha portato alla dispersion­e».

Tornate, tornate, qualcosa resterà.

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