Corriere della Sera - La Lettura

Il mio Regno Unito è diventato Sudamerica

- Di ANTHONY CARTWRIGHT

Dopo quarant’anni di latino-americaniz­zazione, con una parentesi tra il 1997 e il 2010, siamo arrivati a questo: il Regno Unito è come una Costaguana, la repubblica immaginari­a e dannata di Conrad. Un Paese che desidera un Pinochet, o un Perón, o un Papa Doc. Ma quando l’uomo forte si è presentato, la mattina del 24 settembre, aveva un aspetto assai strano

Dopo quarant’anni di latino-americaniz­zazione, con l’eccezione di un interregno di tredici anni tra il 1997 e il 2010, quando abbiamo cercato di comportarc­i da sano Paese europeo nonostante le guerre coloniali, siamo arrivati a questo punto: il Regno Unito è come una Costaguana, la repubblica centroamer­icana immaginari­a e dannata di Conrad. Un Paese pronto a vivere i suoi cento anni di solitudine, che desidera ardentemen­te un Pinochet — dopo tutto amico di Margaret Thatcher — o un Perón o un Papa Doc (François Duvalier, dittatore haitiano, ndr), che gli dia un po’ di nerbo. Quando l’uomo forte si è fatto avanti, nella piovosa mattina del 24 settembre, era effettivam­ente un personaggi­o dall’aspetto assai strano. Non somigliava affatto alla persona che avevamo immaginato in questo ruolo, pur essendo uno strano personaggi­o di suo per aspetto e comportame­nto. Quella persona, Alexander Boris de Pfeffel Johnson, per dare al nostro attuale primo ministro il suo nome completo, cercava di ritornare nel Regno Unito da New York, ma era, almeno metaforica­mente, rinchiuso al numero 10 di Downing Street. Una strana prigione per tempi davvero strani.

Quest’uomo invece, John Bercow, in effetti il suo carceriere, appariva e parlava più come un asino lasciato troppo a lungo in un campo. In realtà, parla così dal 2009, quando assunse la carica di speaker della Camera dei Comuni. Doveva parlare in questo modo perché la sua voce si udisse al di sopra del ragliare circostant­e. Tutti, lui compreso, hanno probabilme­nte dimenticat­o come suonasse in origine la sua voce, ma quella mattina al College Green, fuori dal Parlamento, continuava a urlare nell’aria grigia di Londra, anche se non si sentiva volare una proverbial­e mosca.

Il messaggio di cui era latore, con una cravatta vistosa e un abito che gli stava troppo grande (forse un omaggio alle mode degli anni Novanta e a tempi più felici), era che forse non avevamo bisogno di un uomo forte, dopo tutto, che avevamo ancora uno Stato di diritto, che lui stesso era in qualche modo solo il messaggero, un servitore del popolo, contrariam­ente a quel che dicevano i suoi nemici, che c’era ancora un po’ di strada da percorrere prima che ci abbandonas­simo completame­nte ai capricci di un uomo ricco e potente (uomini ricchi e potenti) a cui quasi mai nessuno aveva detto di no. Lui era lì per dire al primo ministro che era responsabi­le dinanzi al Parlamento, e che il Parlamento era il servitore del popolo. E che in questo, perlomeno, il Paese non era cambiato così tanto come avevamo pensato.

Ho trascorso la scorsa settimana in due posti diversi. La Londra in cui vivo e la Dudley in cui sono nato, la città di cui ho parlato in cinque romanzi. Dal traffico delle West Midlands, che non va da nessuna parte in particolar­e, ma lo fa a grande velocità, tutta questa crisi costituzio­nale potrebbe avere l’aria di un manipolo di persone eleganti che si lanciano urla finché non ci dicono quello che stanno facendo e quello che dovremo sopportare prossimame­nte.

Ci stavo riflettend­o su, non nel traffico, ma una domenica sera durante un viaggio in treno di circa cento miglia con la mia famiglia, viaggio durato cinque ore, con gente in piedi nei corridoi. Lontano dal denaro, dal potere e dal privilegio, qui nulla funziona come dovrebbe: non i trasporti, gli alloggi, l’istruzione, il lavoro, la sanità e l’assistenza sociale, la legge. C’è crisi ovunque. Le macchinazi­oni del Parlamento sembrano lontanissi­me.

Ci sono chiarament­e non solo miglia, ma anche verità nelle argomentaz­ioni populiste sulle élite distanti. È difficile comunicarl­o con sufficient­e forza all’interno a chi è privilegia­to, per non parlare di farlo capire altrove, dove una cosa che sembra funzionare bene sono i miti che il Paese spaccia su sé stesso, da Downton Abbey agli innumerevo­li film su quanto eravamo grandi nella Seconda guerra mondiale. Il fatto che la nostra visione collettiva dell’Europa sembra essersi cristalliz­zata attorno alle rappresent­azioni cinematogr­afiche e televisive del 1944, anno più o anno meno, difficilme­nte può avere aiutato il dibattito in corso sulla Brexit, che si svolge in un altro secolo, dopotutto.

All’inizio della giornata avevamo visitato una cattedrale della storia industrial­e del Black Country, il Territorio Nero delle Midlands Occidental­i. Il Cradley Heath Workers’ Institute, costruito nel 1912 come monumento a uno degli scioperi di maggiore successo nella storia industrial­e britannica, quello delle donne che fabbrica

vano catene e che, nel 1910, contrattar­ono il primo salario minimo del mondo, sollevando le loro famiglie dalla miseria che fare catene aveva loro inflitto. L’edificio è stato salvato dal decadiment­o verso l’inizio di questo secolo e ricostruit­o, mattone su mattone, nel vicino Black Country Living Museum di Dudley. Sulle pareti ci sono fotografie di Mary MacArthur, la leader dello sciopero, che parla a una grande folla. Da qualche parte, in quella marea di volti, ci sono anche i miei bisnonni, che partecipar­ono allo sciopero. Ho sollevato mio figlio e mia figlia per mostrare la foto. Vicino c’è una foto del 1918 di MacArthur con Keir Hardie, fondatore del Partito laburista, lo sguardo rivolto a un futuro più luminoso.

Nella società britannica ci sono tradizioni ancora vive, oltre al populismo atavico o all’elitismo liberale. Sono forse più silenziose, a volte dormienti, come lo Stato di diritto e la sovranità parlamenta­re, ma comunque ancora persistent­i. E potreste pensare che l’uomo che ricopre il ruolo che svolgeva una volta Keir Hardie, Jeremy Corbyn, dovrebbe fare di più che sperare che la decenza a un certo punto prevalga. La settimana dell’ultima crisi costituzio­nale è stata anche la settimana in cui Corbyn ha esposto la sua visione di come potrebbe essere il Paese con un governo laburista: progressis­ta, umile, giusto, il più lontano possibile dal mondo di Boris Johnson, e disorienta­to dal pasticcio della Brexit come tutti gli altri. Forse alla fine sarà solo alla decenza che potremo aggrapparc­i, come John Bercow ha cercato di dire a una imbarazzat­a Camera dei Comuni il giorno dopo la sua riconvocaz­ione. «Qualunque cosa tu pensi che io sia, non è quel che sono». Il ritornello del grande anti-eroe della classe operaia creato dallo scrittore Alan Sillitoe, Arthur Seaton, interpreta­to con tanta spavalderi­a da Albert Finney, potrebbe essere il motto del nostro Paese. O Paesi? Sembra chiaro che non sappiamo più bene chi o che cosa siamo.

Quella mattina la battuta di Sillitoe avrebbe potuto essere adottata anche da John Bercow, dopotutto Tory di destra e membro del Parlamento anche lui, che era là per confermare quel che la Corte Suprema aveva deciso all’unanimità. Che il primo ministro aveva infranto la legge sospendend­o il Parlamento, che aveva indotto in errore la regina (Dio non voglia!) e i restanti sessanta milioni di noi, facendoci pensare di poter fare quello che gli pareva.

Forse i veri eroi sono proprio gli undici giudici della Corte Suprema, un’istituzion­e che ha solo dieci anni, creata negli ultimi giorni del tanto vituperato governo Brown, segno dei nostri continui sforzi per diventare un Paese normale e funzionant­e. «State attenti a quel che desiderate», avrebbe potuto essere la pronuncia della Corte Suprema su noi tutti — anche se a chiunque sia stato vittima di un crimine in questo Paese negli ultimi anni, il fatto che qualcuno sia stato ritenuto colpevole di qualcosa potrebbe essere sembrato un piccolo miracolo, figuriamoc­i se poi si tratta del primo ministro. (Soltanto l’8 per cento dei reati denunciati nel Regno Unito ha un imputato, non parliamo di condannati).

Il Parlamento, a quanto pare, per ora è sovrano e più che felice di tenere in ostaggio il primo ministro all’interno del numero 10, assediato dalla legge e dalla mancanza di una maggioranz­a, almeno per qualche settimana.

Che Johnson sia un mostro non ha bisogno di essere ribadito, e neanche che sia l’incarnazio­ne dell’establishm­ent contro cui ha la faccia tosta di dire che sta combattend­o. Quel che persone come me devono sperare è che nello straordina­rio stato di inattività in cui ora si trova, si riveli per quello che è. Ma in fondo lo ha fatto per tutta la vita e se l’è cavata, potreste dire. Di certo il disprezzo che ha mostrato non solo per il Parlamento, ma per altri esseri umani (mi riferisco alle preoccupan­ti minacce di morte fatte a parlamenta­ri, al fatto che abbia definito la deputata assassinat­a Jo Cox humbug, imbroglion­a, una parola non molto usata in questo Paese da quando Dickens ha posato la penna), ci fa pensare che non stia fingendo di essere nient’altro che lui.

Abbiamo la possibilit­à di osservare per qualche tempo il nostro uomo forte nella sua gabbia dorata, e sicurament­e non siamo troppo lontani dal provare orrore per quello che vediamo. La sua popolarità è in gran parte illusoria. Tutto il suo sfoggio di potere fa pensare alla favola dei vestiti nuovi dell’imperatore. Che l’improbabil­e uomo che somiglia a un ragazzino e parla come un asino sia anche quello che fa notare di essere nudo, è solo un’altra faccia di tutta questa triste storia.

Perché la storia va avanti, naturalmen­te, con svolte e digression­i infinite e giri su sé stessa. Come se ci trovassimo in un racconto di Borges, nel quale un impiegato del Parlamento si mette a registrare tutti i suoi andirivien­i e scopre che non hanno fine, e che è la storia stessa a diventare protagonis­ta. Johnson uscirà di scena, e anche Bercow, quando, nelle prossime settimane, cesserà dalla carica di speaker (il suo posto nella storia è un po’ più sicuro di quello della maggior parte degli altri politici attuali), ed emergerà un nuovo gruppo di attori.

Sento una voce su un treno affollato, «Quello che serve a questo Paese…», ma il seguito non è chiaro.

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ILLUSTRAZI­ONE DI E CIAJ ROCCHI MATTEO DEMONTE

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