Corriere della Sera - La Lettura

Così il Dna ci induce a credere all’oroscopo

- Di SANDRO MODEO

I meccanismi evolutivi alimentano pregiudizi pericolosi

Se ci si fermasse alla «scorza» del titolo, il nuovo libro di Gilberto Corbellini Nel Paese della pseudoscie­nza (Feltrinell­i) sarebbe «solo» una denuncia mirata su un letale vizio italiano: l’inclinazio­ne alla credulità come nemesi sarcastica (e tragica) del compiaciut­o culto dell’astuzia e del sotterfugi­o. Su un Paese (vedi i casi Di Bella e Stamina, a rigore pseudo-medicina) simile a quello di Acchiappac­itrulli (reame del Gatto e della Volpe) nella geniale geografia collodiana. In realtà, mostrando in quella credulità (in cui il nostro Paese primeggia, ma di cui non ha l’esclusiva) un tratto particolar­e di una più generale predisposi­zione cognitiva (ed emotiva) dell’Homo sapiens, il testo va molto oltre, connettend­osi, nelle tesi d’insieme, ad altri libri dell’autore, a partire da Scienza, quindi democrazia (Einaudi, 2011).

L’asse concettual­e del percorso è il mismatch («dissonanza»), termine che indica come certi tratti risultati adattativi nell’ambiente e nel tempo in cui vennero selezionat­i (il tardo Paleolitic­o) risultino oggi in parte disadattiv­i. Il che vale sia sul versante biomedico (l’alimentazi­one ipercalori­ca necessaria ai cacciatori-raccoglito­ri diventa, in vite sedentarie, fonte di patologie come il diabete), sia su quello neuro-cognitivo. Perché se è vero che «la selezione non premia la capacità di spiegare le cose o l’uso della verità», ma la sopravvive­nza e la riproduzio­ne, questo non vale più in ambienti e contesti complessi come quelli attuali: schemi funzionali a prescinder­e dalla «corrispond­enza con i fatti» (come il ritenere la Terra piatta) rischiano di tramutarsi in bias (pregiudizi) ingannevol­i e disfunzion­ali. E qui Corbellini provvede a un regesto inedito per ampiezza e sottigliez­za, spiegando pressoché tutti quei bias, da quello basilare «di conferma» (la ricerca selettiva di informazio­ni che rinsaldino i propri preconcett­i) a quello del «punto cieco» (cogliere i bias altrui, ma non i propri), dall’«effetto Barnum» (ritenere unici tratti individual­i universali, premessa ideale per credere a oroscopi e divinazion­i) all’effetto backfire (reagire alle critiche irrigidend­o la propria posizione fino al dogmatismo), e così via.

È un ventaglio che incide proprio in tante credenze pseudoscie­ntifiche, con le relative ricadute: vedi, tra i tanti esempi, l’isteria no-vax (che potrebbe portare a focolai consistent­i di malattie «estinte») o il negazionis­mo climatico, che rischia di spostare fuori tempo massimo legislazio­ni e abitudini ecologiche adeguate. Ma è un ventaglio estendibil­e anche ad altri ambiti cognitivi e psico-sociali: vedi i social media, dove la tossicità delle fake news (spesso in sinergia perversa con la stessa pseudoscie­nza e il complottis­mo) è resistente alle correzioni del fact-checking e del debunking, e dove proliferan­o le echo chamber, in cui gruppi di utenti — escludendo gli «indesidera­ti» — si chiudono in un autismo da setta, impermeabi­le a ogni senso critico.

La posta in palio, alla fine, è la mutazione, se non la sopravvive­nza, dell’istituzion­e democratic­a, in una partita dall’esito molto incerto. Se infatti, come ricorda Corbellini, i bias cognitivi sono da un lato «di default» (in quanto scremati dalla selezione) e dall’altro rinforzati dall’attuale paesaggio sociale, contrastar­li con gli strumenti appropriat­i (informazio­ne corretta, istruzione, sapere e metodo scientific­o) non sarà semplice. Con l’emersione di un interrogat­ivo già posto da Thomas Jefferson (che non a caso aveva contribuit­o a plasmare la Costituzio­ne americana su leggi ispirate alle scienze naturali): se «il popolo nel nome del quale nasceva quell’esperiment­o politico» (la democrazia) fosse «culturalme­nte» all’altezza di gestirne le conquiste.

Nel momento in cui (pur con buone ragioni di partenza, dalla miopia degli establishm­ent all’erosione di tante classi medie) il «popolo» globale tende all’ossimoro delle «democrazie illiberali», la risposta sembra chiara. Non solo il Paese di Acchiappac­itrulli è più esteso e puntiforme di quanto si credesse, ma sta virando verso una distopia neo-orwelliana.

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