Corriere della Sera - La Lettura
Quel che resta sono i versi, comunque
Non ci sono soltanto le celebri cancellature, per Emilio Isgrò: i suoi testi, che recuperano forme della tradizione come il sonetto o la terzina, sono l’altra faccia della stessa medaglia creativa
L’arte del verso non si sa davvero per che verso prenderla. Veglia o sogno, controllo o abbandono, forma o contenuto, regola o eccezione? Dovunque si guardi non esiste un punto d’appoggio privilegiato, un diritto di precedenza, una prima pietra. Al contrario, sono sempre le due cose insieme, e dunque la loro tensione, a essere ogni volta in gioco. Pensiamo solo all’opera di Emilio Isgrò, il poeta delle celeberrime cancellature. Queste poesie — che espandono e insieme fissano il discorso poetico in direzione visiva e concettuale — sono state scritte per cancellare o per conservare, per abradere o per incidere, per condannare (il linguaggio inerte, ingiustificato, mortificato) o per salvare (la lingua nella sua piena dignità, nel suo rigoglio)?
In realtà, non è possibile scegliere, perché ciascuno dei due aspetti vive soltanto alla luce, o all’ombra, dell’altro. L’occhio non cade sul bianco o sul nero, ma sul loro contrasto. Senza la traccia delle striature nere, le parole sopravvissute non avrebbero risalto, non avrebbero smalto. Ma viceversa senza di queste lo stesso gesto della cancellatura perderebbe il proprio senso e fondamento, finendo per risultare un atto di puro arbitrio. Le poesie visive sono animate senza dubbio da un’intenzione sperimentale, provocatoria, al limite eversiva, eppure possiedono il rigore, la compostezza, l’alta risoluzione formale che ne fanno subito qualcosa di classico (si può perfino pensare al precedente di Ungaretti, solo che adesso gli spazi bianchi si sono fatti neri). Attraverso l’interanimazione reciproca dei due aspetti, dunque, Isgrò ha fatto del proprio tema ossessivo — la cancellatura, appunto — il proprio mezzo, rendendola a tutti gli effetti memorabile.
Di questa situazione il suo nuovo libro di poesie, Quel che resta di Dio (è appena uscito per Guanda), sembrerebbe costituire il più esplicito dei rovesciamenti. Non la cancellazione, come nelle poesie visive, ma la traccia di una durata, di un valore e di una tenuta. Il titolo stesso della raccolta, che viene replicato in ogni sezione tematica — quel che resta volta a volta della carne, del dopoguerra, dell’arte, dell’America, dei lupi, degli Isgrò, dell’amore, dell’amore senza alberi, del Mediterraneo — rimanda ovviamente a una delle affermazioni più celebri e discusse della storia della poesia: quel che resta lo fondano i poeti di Friedrich Hölderlin. Al colpo di spugna delle poesie visive farebbe insomma da controcanto la fondazione messa in opera dalle poesie scritte in versi (tra il 1981, se non talvolta più addietro, e il 2019, come avvisa una nota dell’autore).
Eppure non è affatto così. La cassatura e la conservazione, infatti, non sono che le due facce della stessa medaglia, proprio come lo sono in Isgrò la poesia visiva e quella in versi, al punto che la distinzione tra le due non sembra avere più di tanto senso. Come ambigua o bivalente è la prima, così lo è la seconda. Nessuna palinodia, dunque. Piuttosto, lo stesso campo di tensioni poetico viene percorso ora da una parte ora dall’altra, come se si entrasse in uno stesso giardino da due ingressi collocati su lati opposti.
E in ogni senso contesa appare la definizione stessa di quel che resta, che nel complesso non viene pronunciata senza il ricorso al doppio volto dell’ironia (l’arma più consueta e insieme più efficiente d’Isgrò: «La mia parola/ è diventata duplice/ come la vita»), declinata spesso e volentieri nei modi dell’indignazione, del sarcasmo, dell’amarezza, tanto più nei testi che si presumono scritti più tardi. Tra le varie voci e figure compare perfino quella di un «grillo incattivito».
L’idea portante di queste poesie è allora antifrastica, proprio come lo è quella di cancellatura. Come tale nega e afferma allo stesso tempo. Se si trova qui un motivo o sentimento che prevale tra gli altri, del resto, è certo quello della morte, che appare sempre più indissolubile dalla presenza della vita stessa, come accade in un uno dei non pochi contrasti che compaiono nel libro: «Tu pensi che la vita sia la vita./ Io penso che la vita apra le porte/ alla morte». La permanenza che qui si celebra non potrà che essere ben strana e paradossale, dunque.
Questa poesia appare ambivalente e contraddittoria a ogni livello. Ad esempio nel dissidio tra la percezione della sacertà della vita (più precisamente: della «grammatica/ che sostiene il creato e le creature») e lo sdegno per la finitudine del destino individuale, con la sfrontatezza, la spinta alla dissacrazione che ne deriva. Oppure nella discrepanza tra la formalizzazione poetica — è un libro di sonetti, distici e terzine, di endecasillabi e di rime — e la percezione fortissima del divenire e consumarsi della materia, della corporeità, degli elementi, del cibo, della carne. Per questo siciliano trapiantato da decenni a Milano, l’immaginario barocco, e così la percezione del teatro del mondo e delle sue rovine, costituisce lo stampo stesso della realtà, su cui si sono innestati, come educandolo e portandolo a consapevolezza, il senso delle linee e della grafica, delle geometrie e dei disegni funzionali, esatti, calibrati.
Tra l’arte del cancellare e quella del conservare, potremmo anche dire che queste poesie rappresentano la retroguardia di un’armata di cui le cancellature costituiscono l’avanguardia. Ma a patto di riconoscere, visto che la poesia è figlia della memoria, che l’esercito è sempre lo stesso, che le due posizioni sono comunque reversibili e, di conseguenza, che una sola è la guerra che combattono.