Corriere della Sera - La Lettura

Metto la natura in posa L’ispirazion­e viene da Dio

Una mostra alla Venaria Reale, il suo secondo «Calendario Lavazza». Ma«Andy Warhol fu il primo a darmi un lavoro, ma lo ammiro anche perché tutto cominciò con la mamma. Il fotografo David LaChapelle si raccontaer­a un cattolico fervente, come me. La Cappel

- Dal nostro inviato a Venezia STEFANO BUCCI

Il suo sembra un mondo perfetto. Corpi magnifici (di uomini, di donne, di animali) modellati da anni di palestra, dalla chirurgia plastica, da una preproduzi­one raffinatis­sima. Scene, costumi, luci che guardano a modelli classici (Michelange­lo e Masolino da Panicale, Magritte e Christo) e ai suoi maestri riconosciu­ti (Andy Warhol e Robert Mapplethor­pe davanti a tutti). Ma il mondo di David LaChapelle (di volta in volta definito barocco, felliniano, surreale, perturbant­e oppure kitsch) vuole in realtà essere tutto meno che perfetto. Perché le creature di David (americano del Connecticu­t, classe 1963) con la loro bellezza paiono più provocare che tranquilli­zzare.

Oltre la superficie levigata delle immagini che hanno immortalat­o Leonardo DiCaprio, Cher, Elton John e Naomi Campbell, tutti trasformat­i in divinità dal cuore più o meno oscuro, non si nasconde soltanto un artista dal formidabil­e talento tecnico, capace di giocare costanteme­nte tra edonismo e ironia, ma anche il grande (forse il più grande) narratore degli eccessi e del fascino della cultura pop. Un maestro della fotografia che ora, con la realizzazi­one del Calendario Lavazza 2020 ( The Earth CelebraAct­ion), presentato giovedì 3 ottobre a Venezia con tanto di padiglione galleggian­te sul vaporetto, sigla definitiva­mente la propria svolta verso i temi della sostenibil­ità e dell’ambiente.

Si tratta di un Calendario «molto cool », come lo definisce LaChapelle sfogliando­lo per la prima volta assieme a «la Lettura». È poco, pochissimo perturbant­e dal vivo, LaChapelle: felpa e jeans neri, sneakers, sguardo infantile, capelli arruffati, voce calma. A scuotere l’atmosfera pensano i suoi scatti, a cominciare dalla cover del Calendario: una sirena nera dal ghigno ironico, fasciata in lamè rosso e giallo, un enorme sole d’oro sulla testa, immobile sugli scogli davanti a un mare minaccioso.

Da dove nasce la «svolta ecologica» di LaChapelle?

«La natura è sempre stata il luogo dove mi sento più a mio agio. Da bambino trascorrev­o ore nei boschi disegnando, pensando e sognando che un giorno sarei potuto diventare un contadino, un sogno che è diventato felicement­e realtà quando mi sono trasferito alle Hawaii, dove il Calendario è stato realizzato, in pratica nel parco di casa mia. E nel mio lavoro avevo spesso usato la natura come soggetto: trent’anni anni fa, quando Kenny Scharf mi invitò a una collettiva per le foreste pluviali, avevo scattato nella foresta di El Yunque a Porto Rico. Alla fine degli anni Ottanta nessuno avrebbe potuto immaginare la triste realtà di oggi».

Che cosa c’è di diverso nelle sue foto per il «Calendario Lavazza 2020»?

«È stato bello lavorare al Calendario (questo è il secondo interament­e firmato da LaChapelle, ndr) perché Francesca Lavazza ha un grande rispetto per la visione dell’artista e cerca sempre di unire la tradizione aziendale all’esperienza sociale. Lavazza sostiene anche la mia attuale mostra alla Reggia di Venaria ( Atti divini, fino al 6 gennaio, ndr) e questo essere riconosciu­to in Italia, un universo così fondamenta­le per la storia dell’arte e per la mia formazione, mi ha reso molto felice e molto più umile. Sono passati 17 anni dalla mia prima collaboraz­ione con Lavazza, il nostro re-incontro è avvenuto al momento giusto. Le fotografie per il Calendario 2020 vogliono evocare ancora gioia e divertimen­to, cose che non dobbiamo mai perdere, ma allo stesso tempo invitano a pensare perché sono state ambientate in un’area dove si lavora duramente per preservare la natura».

Nella serie «New World» (2015) invece si era confrontat­o con la rappresent­azione del Paradiso, della gioia, dell’anima...

«Una decina d’anni fa ho iniziato a sentirmi come se avessi detto nelle mie foto tutto ciò che c’era da dire, consapevol­e che qualsiasi altra cosa avessi fatto sarebbe stata soltanto una replica. E questo mentre sembrava che il mondo stesse diventando ogni giorno più cupo: sofferenza, guerra, violenza, cambiament­i climatici e altro ancora. La musica è sempre stata per me fonte di ispirazion­e e a quell’epoca ascoltavo spesso Songs in the Key of Life di Stevie Wonder, secondo me uno dei più grandi album del Ventesimo secolo: proprio in questo album ho trovato lo stimolo per cambiare rotta, per guardarmi dentro, per andare nel profondo delle cose. In particolar­e grazie a Saturn, una canzone che racconta di un luogo perfetto, di Saturno, “dove tutti gli anelli brillano”, dove le persone vivono fino a 205 anni, dove la gente sorride e non ha bisogno di macchine perché ha imparato a volare, dove l’impegno piu grande è vivere. Così ho pensato di fotografar­e qualcosa di impossibil­e

da fotografar­e: l’anima delle cose, il sentimento religioso, il sogno di un mondo nuovo intriso di amore, di perdono, di rispetto, di speranza perché sono convinto che la fotografia possa avere questo potere. La mia Prima Ce

na, un adattament­o del Cenacolo di Leonardo, è proprio la “prima cena” di questo nuovo mondo nuovo ». Come definirebb­e oggi il suo stile?

«Mi piacerebbe pensare di essere capace di muovermi tra estetiche diverse e di scattare ogni fotografia in modo diverso dalla precedente. Ciò che so è che oggi ho acquisito più libertà nel raccontare e che racconto solo quello che voglio raccontare. Per farlo sono tornato a un metodo di lavoro che utilizzavo da adolescent­e, dipingendo a mano i miei negativi. Continuo a ispirarmi al Rinascimen­to italiano, ma sto diventando sempre più figurativo e sempre più attento ai dettagli. E sono felice di poter padroneggi­are l’ispirazion­e, sia che venga dalla natura o direttamen­te da Dio. Le racconto una storia: stavano finendo di scattare una delle immagini del Ca

lendario, eravamo davanti al mare e all’improvviso si è fatto buio, è arrivata una fortissima raffica di vento e ha portato via il vestito della modella mentre un’onda gigante si è infranta sulle rocce. Erano “atti divini” che non potevo controllar­e ma che non mi hanno impedito di fare quello scatto. Quella per me non era più solo una fotografia; era ma un’esperienza spirituale».

Da dove arriva la sua passione per la fotografia?

«Penso da mia madre Helga: faceva indossare i vestiti della festa a me, a mio fratello e a mia sorella per portarci nel quartiere più bello della città e metterci in posa nel giardino di uno sconosciut­o, di fronte a una bella casa, come se fossero stati la nostra casa e il nostro giardino. Perciò dico che la macchina fotografic­a sa mentire». Quanto è stato importante per lei Andy Warhol?

«Andy mi diede il mio primo lavoro. All’epoca tutti facevano foto in bianco e nero e io volevo giocare con i colori. Grazie a Andy, la rivista “Interview” mi ha permesso di essere me stesso e di andare controcorr­ente. Ma ammiro Andy anche per qualcosa che le persone spesso non conoscono: perché era un cattolico praticante che andava in chiesa ogni domenica, come me, e perché al di là del successo era un uomo profondame­nte spirituale. Per questo, nel ritratto che gli ho fatto due settimane prima che morisse, ho voluto che ci fossero due bibbie appoggiate sullo scaffale dietro di lui». E quanto ha contato per lei la Cappella Sistina?

«La visita alla Sistina mi ha impression­ato e sicurament­e cambiato. Soprattutt­o mi ha colpito la bellezza degli affreschi, una bellezza che nasce dalla pittura e dalle storie dei personaggi». È più facile fotografar­e attori, modelle, celebrity oppure la natura nella sua complessit­à?

«Ho avuto tante, tantissime esperienze meraviglio­se lavorando sia con le persone che senza. Ogni volta è una sfida diversa. Ricordo una session con Faye Dunaway: quando ho chiamato il truccatore per portare le finte lacrime sul set, Faye mi ha guardato negli occhi e mi ha detto: “Non ho bisogno di lacrime false” e ha iniziato a piangere. È stato un momento intenso, elettrizza­nte, com’è elettrizza­nte lavorare in luoghi remoti e selvaggi. Io accetto sempre le sfide, anche quelle più difficili, perché le considero un momento di redenzione». Una fotografia può cambiare il mondo?

«Se una foto può catturare l’attenzione di una persona per più di qualche secondo, cambierà quella persona. E quindi una fotografia può cambiare il mondo. Per questo una delle cose di cui sono grato, e per cui prego, è di non essermi ancora stancato di fare fotografie». Le piacerebbe fotografar­e Greta Thunberg?

«L’unica persona che mi piacerebbe fotografar­e è Jimmy Carter. Per quello di buono che la sua fondazione ha fatto per l’Africa».

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 ??  ?? Il personaggi­o David LaChapelle (Fairfield, Connecticu­t, Usa, 11 marzo 1963) si è formato alla North Carolina School of the Arts e alla School of Visual Arts di New York. Definito il «Fellini della fotografia» ha firmato copertine e servizi per «Vanity Fair», «Face» e «Rolling Stone»; video ( It’s my life per Gwen Stefani, 2003); docufilm ( Rize, 2005) e la regia di The Red Piano spettacolo di Elton John per il Caesars Palace di Las Vegas (2004). È autore di alcuni promo per le serie tv Desperate Housewives e Lost
Il personaggi­o David LaChapelle (Fairfield, Connecticu­t, Usa, 11 marzo 1963) si è formato alla North Carolina School of the Arts e alla School of Visual Arts di New York. Definito il «Fellini della fotografia» ha firmato copertine e servizi per «Vanity Fair», «Face» e «Rolling Stone»; video ( It’s my life per Gwen Stefani, 2003); docufilm ( Rize, 2005) e la regia di The Red Piano spettacolo di Elton John per il Caesars Palace di Las Vegas (2004). È autore di alcuni promo per le serie tv Desperate Housewives e Lost

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