Corriere della Sera - La Lettura
Amore estremo, scrittura estrema
Voci L’irlandese Eimear McBride narra un’iniziazione difficile. Alla vita, al sesso. «Ma nessuna pornografia», dice l’autrice. Il segreto: una lingua sperimentale che scardina la grammatica
«Nello sferragliare notturno parlando di film camminiamo» (...). «Così indugia, quel baratro che ho visto. Vicino alla mia lingua rimanendo in silenzio come quelle acque chete del suo passato che, quando oso chiedere, lui presenta come fossero vetro». E ancora: «In questo momento lo amo così tanto (...). Ma. Presto. È di nuovo il passato. Abbiate compassione per chi è finito. Ne abbiamo e restiamo sdraiati tranquilli ricordando quale corpo è suo, quale mio».
Il passato, il baratro. E poi i corpi, il sesso, l’amore. In una lingua spiazzante ma potente, che cattura e non lascia scampo, Bohémien minori, secondo romanzo di Eimear McBride, narra la difficile costruzione di una relazione tra una diciottenne, studentessa di teatro a Londra, e un attore di vent’anni più grande.
Una p rova c h e co n fe r ma McBri d e (1976) come voce originale, importante, della nuova narrativa irlandese, insieme ad autrici come Sally Rooney (1991) e Lisa McInerney (1981). Già nel 2014 il primo romanzo, Una ragazza lasciata a metà — tradotto in Italia da Safarà, divenuto pièce teatrale con Elena Arvigo —, valse a McBride, in Gran Bretagna, il Women’s Prize for Fiction, battendo Donna Tartt; poi il Goldsmiths Prize, riservato a chi abbia aperto «nuove possibilità alla forma romanzo». McBride le aprì certamente in quell’esordio — storia di una giovane vittima di abusi e del legame con il fratello, consumato da un tumore al cervello (tragedia quest’ultima che ha davvero toccato la famiglia dell’autrice). E ora la sperimentazione prosegue nel secondo romanzo, vincitore del prestigioso James Tait Black Memorial Prize, in uscita in Italia per La nave di Teseo.
Se infatti la trama di Bohémien minori, per quanto forte, a tratti disturbante — entrambi i protagonisti hanno subìto abusi —, può ricondursi, almeno nei contorni, ai canoni della storia d’amore che salva e redime, la scrittura è tutt’altro che tradizionale (e Tiziana Lo Porto è abile a restituirla nella traduzione italiana). Torna la lingua spezzata dell’opera prima, incurante delle virgole, ricercata nel sovvertire l’ordine naturale delle parole, poetica e insieme popolare: «Appannata dall’acqua della vasca da bagno passo dalle sette alle otto. I momenti gocciolano ripercorrendo l’ignobile errore di ieri notte. Sogno di essere diventata sottile e alta come un arco. Parlando e scherzando, riservata e in gamba e dalle sopracciglia distanti — non qui a mollo, sotto la schiuma».
All’inizio la lettura può apparire faticosa, ma dopo qualche pagina si entra nella testa e nel corpo della protagonista, nel flusso di coscienza di una giovane donna che registra in presa diretta pensieri e sensazioni su indelebili prime volte: a letto, a Londra, sul palco. La diciottenne si è trasferita dalla provincia irlandese per frequentare la scuola di recitazione, come fece alla sua età la stessa McBride, anche se il romanzo non è autobiografico.
«Da sempre mi interessa la componente linguistica», spiega l’autrice a «la Lettura». «Sono irlandese, Joyce mi ha mostrato che non ci sono regole. Lui voleva mettere in contatto l’uomo con l’universo, io vado semplicemente al centro della vita interiore dei personaggi e penso che possa esprimersi in modi meno tradizionali. La mente va più veloce della grammatica. Le esperienze avvengono simultaneamente: nello stesso istante pensiamo, parliamo, sentiamo, compiamo un gesto. Ecco, io cerco di esprimere questo precipitarsi delle esperienze».
Dietro c’è anche la formazione teatrale, negli stessi anni Novanta in cui è appunto ambientato il romanzo (McBride ha lasciato il palco qualche tempo dopo la fine dei corsi, sotto choc per la morte del fratello, e negli anni successivi ha iniziato a scrivere). «Al Drama Centre di Londra — racconta — insegnavano il metodo Stanislavskij. Lì ho imparato a costruire i personaggi dall’interno. Per me la scrittura è come la recitazione, ma adesso ho solo le parole, prima avevo anche la voce e il corpo». Ecco allora che quella di McBride è una sorta di «scrittura 3D», con la quale prova a esprimere tutti i sensi del personaggio. Neomodernista è stata definita, di certo non naturalista. E anche quando si chiede all’autrice se abbia dei modelli, non c i t a un na r r a to re « puro » ma l a drammaturga Sarah Kane: «La sua scrittura, femminile, che però si esprimeva in modo aggressivo, fisico, è stata importante. Non aveva paura di far vivere ai lettori un’esperienza difficile».
Non ce l’ha neppure McBride. Nello stile, appunto, e nei contenuti. «Nel primo libro narro un abuso nel momento in cui avviene. Nel secondo il dopo, scegliendo due personaggi di età diverse. Lui, trentottenne, rovinato da quanto ha subìto ma aggrappato alla vita grazie a una figlia adorata seppure lontana; lei che, a 18 anni, può ancora decidere chi essere». Anche in questo caso l’esperienza interiore diventa scelta stilistica. A metà del libro, il protagonista confessa il suo passato e la scrittura cambia radicalmente, a differenza del primo romanzo, più omogeneo. Per una sessantina di pagine Bohémien minori passa al monologo tradizionale: pare di perdere lo specifico di McBride, e in parte è così, ma il contenuto è talmente delicato da giustificare la scelta. «Il tema è la violenza di una madre su un figlio: non potevo rischiare dubbi interpretativi», conferma l’autrice.
Al romanzo ha lavorato nove anni. «L’ho iniziato — ricostruisce — in un momento in cui ero lontana da Londra. N e s e n t i vo l a n o s t a l g i a . L a z o n a d i Camden Town, quella di quando ero studentessa, è forse l’unico “personaggio” autobiografico: con le sue rockstar ma anche i semplici appassionati di arte, non di fama. A loro si riferisce il titolo, ironico, del libro. Amo Londra e ora sono tornata: mi ero trasferita nell’Inghilterra rurale ma sono rimasta scioccata dal voto pro Brexit, così sono voluta rientrare nella capitale, diversa dal resto del Paese».
Nella trama di Bohémien minori il sesso ha un ruolo decisivo. Il libro è pieno di scene erotiche, talora vissute nello stordimento di alcol e droghe con uomini e donne di una notte. Poi, quelle tra i protagonisti. E di nuovo torna la sfida linguistica: «L’inglese — nota McBride — possiede per l’eros parole che descrivono soprattutto l’esperienza maschile. Io provo a non usarle, specie quelle più colorite, a narrare dal punto di vista della protagonista». L’approccio, precisa, «è anti-pornografico: in cerca dell’essere umano, non di un oggetto da guardare. Il comportamento nell’intimità è parte di noi e come altri aspetti rivela i personaggi. Per i miei due protagonisti è il solo modo di comunicare, conoscersi. A partire da sé stessi: incontro dopo incontro, compiono piccoli passi in questo svelamento».
Per oltre metà del libro non sappiamo i loro nomi. Poi ciascuno pronuncia quello dell’altro, nel momento del passo avanti più difficile. Lei, Eily, quando pensa che non lo rivedrà più. Lui, Stephen, la prima volta in cui le dice di amarla.