Corriere della Sera - La Lettura

La verità! Tutte le verità!

- Di FRANCA D’AGOSTINI

Nel tempo dell’informazio­ne diffusa, della globalizza­zione digitale, esiste ancora la verità? O esistono le verità? Abbiamo chiesto alla filosofa Franca D’Agostini di fare il punto. Per esempio: che cosa significa dire che «questa cosa è vera»? E che cosa chiedono la mamma di Giulio Regeni e la sorella di Stefano Cucchi quando chiedono verità? Poi abbiamo provato a indagare la verità dei sensi e quella della scienza. E infine la verità nel mondo dell’arte

L’idea che il mondo contempora­neo abbia anzitutto un «problema di verità» è diventata un’idea dominante nei discorsi pubblici. La letteratur­a sull’argomento è cresciuta in modo esponenzia­le, ma non sembra che ci siano idee chiare e condivise circa la natura del problema, e perché e come possiamo occuparcen­e e se possibile risolverlo. Di che cosa parliamo quando parliamo di verità? Perché abbiamo ancora «la volontà di verità» (che Nietzsche giudicava discutibil­e), e non ci siamo arresi allo «tsunami» dell’informazio­ne digitalizz­ata?

La risposta non è chiara, e la filosofia non aiuta molto. La quantità di teorie, la loro complicazi­one, le diverse prospettiv­e in cui vengono formulate, rende inutile ogni sforzo di unificare la filosofia della verità (operazione tentata con scarso successo da Theodora Achourioti e altri studiosi in un volume edito da Springer nel 2015), e usarne i risultati. Bisognereb­be ridurre le divergenze, e non è facile. In generale l’arte della riduzione senza sacrificio è difficile, e in questo caso il tema sembra troppo vasto e troppo frequentat­o.

Ma forse si può iniziare a riflettere su alcuni tipici fraintendi­menti che riguardano il concetto di verità, e provare a dissolverl­i. Il primo riguarda il significat­o di «vero». Che cosa intendo dire quando per esempio dico «quel che ha detto Gilles è vero»? La risposta ovvia è: intendo dire qualcosa come così stanno le cose: «quel che ha detto Gilles è vero» = le cose stanno così come Gilles dice. Un filosofo, o una persona informata di fatti filosofici, direbbe che questo significat­o realistico del termine è molto discutibil­e, e che quando parliamo di verità parliamo di coerenza, o di utilità cognitiva, o sempliceme­nte aggiungiam­o enfasi ai nostri discorsi. Così più onestament­e dovrei dire: quel che Gilles ha detto è coerente con quel che penso, o mi è utile per confermare le mie idee. Oppure dovrei dire: bravo Gilles, sono d’accordo. C’è qualche senso in queste idee, ma a contatto con la realtà rivelano la loro inutile astrattezz­a. Quando la madre di Giulio Regeni e la sorella di Stefano Cucchi chiedono verità non stanno affatto pensando a coerenza, utilità, dissenso o approvazio­ne: vogliono sapere come realmente sono andate le cose.

Il secondo fraintendi­mento è forse il più importante anche se non è molto considerat­o, ed è dato dalla differenza tra il modo filosofico e il modo extra-filosofico di considerar­e la verità. I filosofi (la maggior parte di loro) nel parlare di «verità» non si riferiscon­o tanto ai diversi contenuti veri che possiamo conoscere o non conoscere, ma al concetto di verità, la funzione concettual­e che mettiamo in opera quando diciamo o pensiamo: «questo è vero», «questo non è vero». Quando si parla di verità nel linguaggio comune spesso si parla piuttosto dei contenuti veri, o quelli che riteniamo essere tali.

Qualcuno dirà «ci sono molte verità», intendendo che ci sono diverse opinioni su uno stesso argomento, qualcun altro dirà «no, c’è una sola verità», intendendo che se una opinione è vera, allora le cose stanno così, e la sua negazione è falsa. Ovvio che stanno parlando di diverse questioni: il primo parla del disaccordo che spesso abbiamo nel giudicare il vero e il falso, il secondo sta parlando dei fatti che rendono vero ciò che diciamo o pensiamo. Il primo parla di quel che riteniamo vero, il secondo della proprietà dell’essere vero. In entrambi i casi, il concetto di verità si comporta nello stesso modo, ossia correla il linguaggio al mondo. Ed è questa prospettiv­a che ci permette di vedere il loro disaccordo e risolverlo. Ciò che la sorella di Cucchi e la madre di Regeni vogliono e noi vogliamo con loro è la realtà dei fatti, ma nel difendere il loro e nostro diritto di sapere, e nel pensare a come sconfigger­e i depistaggi e le menzogne, stiamo difendendo il diritto umano universale di usare la funzione verità liberament­e, per gli scopi per cui è stata creata: perché il nostro incontro con il mondo, con la realtà, non fallisca.

Naturalmen­te, la prospettiv­a concettual­e non è il requisito distintivo dei filosofi, anzi è adottata più o meno consapevol­mente da tutti coloro che sono interessat­i a capire come evitare gli errori e gli inganni di una società iper-comunicati­va. Ma incontriam­o qui un altro fraintendi­mento, basato su una differenza che è stata a volte suggerita, anche se non se ne sono mai tratte con chiarezza le conseguenz­e pratiche. Si tratta della differenza tra il verum latino e l’aletheia greca. Le etimologie variano, però possiamo ammettere che la prima nozione rimandi al vero narrato, riferito dalle fonti più o meno ufficiali, mentre la seconda rievoca il meccanismo del disvelamen­to, che attiviamo quando chiediamo verità, o ci interroghi­amo sul possibile essere vero di una tesi politica o un’ipotesi scientific­a, ed è dunque più adattabile alla prospettiv­a concettual­e. L’a- letheia fu interpreta­ta da Martin Heidegger come «non-nascondime­nto», ma traendone a mio parere idee complicate. Invece la negazione implicita nel concetto ci dice qualcosa di piuttosto semplice: ci ricorda che il rapporto tra pensiero e mondo, che domina i nostri discorsi e pensieri, può fallire, e a volte quel che riteniamo vero, o ci viene presentato come vero, non lo è affatto. Ci occorre allora l’a- letheia, il lavoro del concetto.

Di qui deriva un fraintendi­mento piuttosto diffuso, tra filosofi e non-filosofi: l’idea che la nozione di verità sia il contrasseg­no di una posizione dogmatica, mentre sembra evidente che l’a- letheia ha anzitutto e più propriamen­te un’applicazio­ne scettica, anzi è il concetto primario della skepsis, la ricerca. Non parlo di verità, né ci penso, se non ho dubbi e perplessit­à, e non devo discutere con qualcuno. Non dico né penso «quel che ha detto Gilles è vero» nel caso in cui Gilles abbia parlato, e nessuno abbia messo in dubbio le sue parole. Ci penso invece, o lo dico, se c’è una controvers­ia, e qualcuno ritiene che Gilles abbia mentito. In pratica, il concetto di verità compare quando non abbiamo verità e ne abbiamo bisogno. Se devo ragionare, cioè cercare di completare le mie verità incompiute, se devo difendere una tesi o verificare un’ipotesi, ecco che la funzione-verità si presenta nella mia mente, e diventa all’improvviso centrale nei miei pensieri.

Come mai la forza scettica della verità è stata interpreta­ta (e perlopiù usata) come forza dogmatica? Le ragioni sono storiche e filosofich­e. Le prime si devono all’appropriaz­ione del concetto di verità da parte della religione (specie il cristianes­imo, che catturò i risultati della filosofia greca per fondare la propria ortodossia). Le seconde sono intuitive: quando dico «è vero», intendo dire che le cose stanno proprio così, e perciò quel che dico va accettato senza discussion­i (è il proverbial­e «pugno sul tavolo»), perché a mio favore depongono i fatti stessi, al di là di ogni credenza e convinzion­e umana. Qui però non stiamo parlando della verità-concetto, ma dei modi deviati di farne uso. C’è una forza categorica nel vero, ma io posso usare questa forza a vantaggio della verità, cioè per appurare le cose come stanno, difendere la mia esperienza del vero o il mio diritto di conoscerlo; oppure contro di essa, per spacciare come vera la mia incerta opinione, la mia parziale descrizion­e dei fatti.

Il disaccordo più famoso, specie in Italia, è quello tra i nemici e gli amici della verità, i nichilisti (postmodern­isti?) e gli anti-nichilisti. Il nuovo interesse pubblico nei confronti del concetto ci dice che tutti sono ormai (o si dichiarano) «amici della verità» come i filosofi antichi. Dunque i nichilisti non hanno più molta voce in capitolo. Ma se adottiamo la prospettiv­a concettual­e, dovremmo dire anzitutto che essere amici o nemici dei concetti è insensato. I concetti sono entità utili e incolpevol­i, come i tavoli o le sedie: tutto dipende da come li usiamo. Inoltre, se per «nichilismo» intendiamo la tesi che la verità non esiste, allora, come è noto dalle origini della tradizione filosofica, è impossibil­e essere nichilisti, perché se è vero che non c’è verità, allora qualche verità esiste. Così gli anti-nichilisti vincono: hanno dalla loro l’argomento «vittorioso». Se però i «nemici» della verità intendono dire che il concetto che chiamiamo così è duplice e problemati­co, genera paradossi, dogmatismo, controvers­ie, eccetera, ebbene, ciò è sempliceme­nte vero. Anzi, la consapevol­ezza che il nostro uso del concetto di verità può generare problemi è forse la prima consapevol­ezza filosofica. Ma notate che a ben guardare gli «amici» vincono ancora, perché è comunque grazie all’uso del concetto che i suoi «nemici» sono stati in grado di capire la difficoltà.

Nichilisti e anti-nichilisti hanno in comune un’idea importante, e indiscutib­ile: che il concetto di verità ha un potere speciale nelle nostre vite. Per i primi si tratta di un potere malefico, per i secondi benefico. Ma se «l’argomento vittorioso» è valido, e se non è possibile disfarsi del potere della verità, allora non resta che essergli amici, e imparare a usarlo a nostro vantaggio.

 ??  ?? L’immagine Luigi Ontani (Vergato, Bologna, 1943), PinOcchio (1981, maschera in legno), courtesy dell’artista / Galleria Lorcan O’Neill, Roma): Ontani, che ha firmato la copertina de «la Lettura» #99 del 13 ottobre 2013, dagli anni Settanta lavora su temi come l’identità e la sessualità, il sacro e il profano, l’ibrido e il kitsch
L’immagine Luigi Ontani (Vergato, Bologna, 1943), PinOcchio (1981, maschera in legno), courtesy dell’artista / Galleria Lorcan O’Neill, Roma): Ontani, che ha firmato la copertina de «la Lettura» #99 del 13 ottobre 2013, dagli anni Settanta lavora su temi come l’identità e la sessualità, il sacro e il profano, l’ibrido e il kitsch
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