Corriere della Sera - La Lettura

La pacifista Lisistrata tra ateniesi guerrafond­ai

- Di LUCIANO CANFORA, IDA BOZZI, GIOVANNI BRIZZI e MARCO RIZZI

Maestri Nell’Atene espansioni­sta dell’epoca di Pericle le commedie di Aristofane documentan­o il netto rifiuto femminile (a quel tempo nascosto) verso i conflitti armati. In questo modo scalfisce un tabù, come farà più tardi Lucrezio contestand­o la vocazione imperiale di Roma

Aristofane è davvero un anticorpo nella macchina della democrazia ateniese, imperialis­tica e guerrafond­aia. La sua testimonia­nza è preziosa — e purtroppo isolata — perché documenta l’esistenza di un sentire collettivo (femminile e perciò nascosto) di rifiuto, non più solo individual­e, della guerra. È giusto mettere in luce la centralità della commedia di Aristofane del 421 ( Pace) nella non grande galassia pacifista dell’Atene del V secolo avanti Cristo; ma certamente è Lisistrata il documento programmat­ico e dirompente.

Aristofane è un comico, forse il più grande comico mai nato, può dire indisturba­to quello che vuole: tanto siamo in commedia! Ma nel pubblico a teatro ci sono anche le donne, che invece dall’assemblea popolare sono escluse. E quindi le sue trovate, le parole di Lisistrata (o più tardi quelle di Prassagora nelle Donne all’assemblea popolare) non cadono nel vuoto, non servono unicamente a fare ridere il pubblico maschile, servono anche a mettere in discussion­e il problema dei problemi al cospetto delle interessat­e (che non erano soltanto incolte popolane).

Sappiamo poco dell’efficacia di tutto ciò: ma ci limitiamo a osservare che, in alcune scuole filosofich­e dei decenni successivi (sia nell’accademia platonica che, più tardi, nel giardino di Epicuro) erano presenti, e partecipav­ano, e pensavano, anche delle donne. Scalfire un tabù è un processo lunghissim­o: «Eppur si muove!». Ma «si muove» molto lentamente, se solo si pensa che, quasi un secolo dopo la Lisistrata incentrata sulla superiorit­à intellettu­ale e politica delle donne sugli uomini, un autorevole sistemator­e del pensiero filosofico e scientific­o come Aristotele teorizzava che lo Stato «si deve considerar­e diviso in due gruppi separati, quello degli uomini e quello delle donne», le quali — sosteneva — appartengo­no al corporeo e all’irrazional­e laddove il principio creativo è maschile essendo l’uomo «forma e spirito».

Tutto diventa più complicato sulla scena tragica. È assai pertinente, a tal proposito, il rinvio ad alcuni luoghi euripidei: il frammento del Cresfonte, appassiona­ta invocazion­e alla pace «la più bella di tutte le dee», nonché il ben noto attacco — nelle Supplici — alla leggerezza con cui le assemblee decisional­i procedono ad approvare dichiarazi­oni di guerra (versi 481-490). Ma quando si tratta di testi tragici è d’obbligo la cautela.

Chi pronuncia quella pertinenti­ssima ed efficace tirata contro la leggerezza assemblear­e («Se la morte balenasse davanti agli occhi al momento del voto, la Grecia frenetica di guerra non avrebbe mai rischiato la propria rovina!») è, a rigore, un personaggi­o «negativo», cioè l’araldo tebano che ingiunge a Teseo, re «democratic­o» di Atene, di non impicciars­i nella disputa con i congiunti degli aggressori caduti davanti alle mura di Tebe. Nell’episodio messo in scena nelle Supplici è Teseo l’eroe «positivo» e l’arroganza del tebano viene sconfitta.

Eppure il tebano formula concetti che paiono rispecchia­re l’autentico pensiero dell’autore, il quale comunque resta sempre ben celato dietro gli scontri dialettici dei suoi personaggi. Ma la finzione di «neutralità» sembra infrangers­i quando alcuni importanti addebiti

espressi da un personaggi­o «negativo» (l’araldo) rimangono senza replica. E si tratta, sempre nelle Supplici, della denuncia di alcuni gravi difetti struttural­i della democrazia assemblear­e: l’incompeten­za del corpo decisional­e e il predominio dei demagoghi.

Colpisce perciò l’abilità con cui Euripide fa comunque profferire, davanti al pubblico, quella vibrante ed efficace critica dell’incoscienz­a con cui gli Stati scivolano nella guerra, ma la fa pronunciar­e dall’aborrito tebano, della cui sconfitta il pubblico si compiacerà alla fine della rappresent­azione. Sa bene come far filtrare i concetti evitando però di ferire «il comune sentire».

Neanche il mondo delle città greche fu un universo immobile. Vi è un abisso tra il Pericle tucidideo (tanto amato dai retori novecentes­chi) il quale esalta «i monumenti di male e di bene» che Atene ha disseminat­o nel mondo (epitafio, paragrafo 44) e le filosofie post-aristoteli­che che predicano l’unità del genere umano: un vero anticorpo in quel «mondo di ferro»; che diventò ancora più ferreo con la dominazion­e romana dell’intero Mediterran­eo e con il genocidio cesariano del mondo celtico.

Eppure anche in quel «mondo di ferro», dominato in ogni suo aspetto dalla mentalità e dalla logica della guerra, si levò la voce del grande Lucrezio che seppe scrivere i versi più anti-imperialis­tici di tutta la letteratur­a latina, che avrebbero fatto inorridire Virgilio, divenuto fervente augusteo: «Meglio essere sottomessi e tranquilli ( parere quietum) piuttosto che comandare con la forza ( quam regere imperio) e sottomette­re il mondo ( regna tenere) »( De rerum natura, V ,1129-1130). Virgilio risponderà puntiglios­amente :« Turege re imperio populos,Ro mane, memento !» ( Eneide, VI, 851): Romani, ricordatev­i che il vostro compito è dominare i popoli.

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ILLUSTRAZI­ONE DI FABIO DELVÒ

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