Corriere della Sera - La Lettura

Piazza Fontana e i servizi Mezzo secolo di misteri

- di ANTONIO CARIOTI, GIOVANNI BIANCONI e GIAMPIERO ROSSI

1969-2019 A cinquant’anni dalla bomba fascista che uccise 17 persone a Milano, abbiamo messo a confronto due studiosi sul nodo più delicato della vicenda: il ruolo degli apparati di sicurezza e il loro rapporto con i terroristi di destra. Vladimiro Satta ritiene che all’intelligen­ce italiana si possa imputare solo un comportame­nto incauto. Aldo Giannuli denuncia complicità e depistaggi nell’ambito di un disegno di matrice internazio­nale

Acinquant’anni dalla strage di piazza Fontana a Milano, avvenuta il 12 dicembre 1969, abbiamo chiamato a discuterne due studiosi del terrorismo: Vladimiro Satta, che attribuisc­e tutta la responsabi­lità ai neonazisti, e Aldo Giannuli, che chiama in causa gli apparati dello Stato. Dopo la strage gli inquirenti seguono la pista anarchica, poi rivelatasi infondata. Errore o montatura?

VLADIMIRO SATTA — Le indagini presero quella direzione sulla base di indizi consistent­i, specie la testimonia­nza del tassista Cornelio Rolandi, che disse di avere trasportat­o sul luogo della strage un individuo che poi riconobbe nel ballerino anarchico Pietro Valpreda. Contro l’estrema destra all’inizio non sussisteva­no elementi equiparabi­li. La pista nera prese quota a novembre del 1971, quando fu scoperto un deposito di armi nella disponibil­ità del neofascist­a Giovanni Ventura. Valpreda non fu oggetto di una persecuzio­ne, semmai la sinistra scommise sulla sua innocenza e vinse. In generale gli anni Settanta portano a una ripresa dell’antifascis­mo: lo stesso Valpreda fu scarcerato alla fine del 1972 grazie a una legge ad personam che prese il suo nome.

ALDO GIANNULI — L’idea di un unico complotto di tutti i servizi di sicurezza per incastrare gli anarchici non regge alla prova, ma neppure l’idea che non ci sia stata alcuna montatura. Bisogna distinguer­e: nella questura di Milano pesava il pregiudizi­o contro i «sovversivi», ma l’ufficio Affari riservati del ministero dell’Interno è un altro conto. Dalle carte del suo dirigente più autorevole, Federico Umberto D’Amato, emerge già nell’estate 1969 il tentativo di costruire una pista anarchica. Invece il Servizio informazio­ni della Difesa (Sid), l’intelligen­ce militare, vorrebbe coinvolger­e Giangiacom­o Feltrinell­i. C’è uno scontro tra apparati di sicurezza, anche nei rapporti con l’estrema destra: il Sid è in contatto con Ordine nuovo, il gruppo responsabi­le della strage, mentre Avanguardi­a nazionale di Stefano Delle Chiaie è legata agli Affari riservati. Relazioni occulte che fanno dubitare circa la buona fede di queste strutture. Aggiungo che, secondo me, a spostare l’attenzione sui neonazisti, prima del ritrovamen­to delle armi nel 1971, è il libro di denuncia La strage di Stato, uscito anonimo nel giugno 1970, che porta vari elementi contro l’estrema destra, anche se il regista del massacro è erroneamen­te indicato in Delle Chiaie. Ma già prima Guido Lorenzon aveva riferito le confidenze di Ventura: dalle sue rivelazion­i partono le indagini sullo stesso Ventura e su Franco Freda.

VLADIMIRO SATTA — Lorenzon è un vecchio amico di Ventura e ne riferisce i discorsi compromett­enti, ma la sua deposizion­e è oscillante. A un certo punto ritratta.

Per i magistrati è difficile basarsi su un teste così, anche perché la perquisizi­one a casa di Ventura, nel dicembre 1969, non dà risultati. I primi riscontri arrivano nel 1971 con la scoperta delle armi. Allora l’indagine decolla, ma questo non c’entra nulla con il libro La strage di Stato, che ignora Freda e Ventura. Torniamo a Valpreda.

ALDO GIANNULI — È vero che contro il ballerino anarchico c’erano indizi concreti. Nello stesso Pci molti all’inizio ritenevano che potesse essere colpevole. Ma le inchieste vanno valutate in sede processual­e e la pista anarchica non ha retto. Io non credo a una regia unica volta a deviare le indagini, ma i depistaggi ci sono stati e alcuni funzionari sono stati condannati.

VLADIMIRO SATTA — Senza dubbio Delle Chiaie era in rapporto con gli Affari riservati, nell’ambito di una sorta di scambio di favori. Per quanto riguarda il Sid, tra i suoi collaborat­ori esterni c’era Guido Giannettin­i, giornalist­a, amico di Freda e Ventura, vicino a Ordine nuovo, cioè all’organizzaz­ione responsabi­le di piazza Fontana. Quando la magistratu­ra s’imbatte in lui, chiede notizie al servizio segreto militare. Nel luglio 1973 il Sid rifiuta di dare informazio­ni, secondo il principio per cui un’agenzia d’intelligen­ce non deve mai rivelare i nomi delle sue fonti riservate. La risposta denota però un’assoluta mancanza di sensibilit­à politica: dopo la bomba di piazza Fontana, sarebbe stato opportuno dare la priorità all’esigenza di aiutare gli inquirenti. L’errore viene poi corretto nel giugno 1974 dall’allora ministro della Difesa Giulio Andreotti, nell’ambito di una svolta politica antifascis­ta che aveva visto lo scioglimen­to di Ordine nuovo con decreto governativ­o nel novembre 1973. In un’intervista Andreotti dichiara che Giannettin­i è un informator­e del Sid. A quel punto il giornalist­a, che il controspio­naggio aveva fatto fuggire all’estero, si consegna in Argentina alle autorità italiane: sarà processato a Catanzaro per piazza Fontana, condannato in primo grado e poi assolto in appello e in Cassazione.

ALDO GIANNULI — Giannettin­i però non è un caso isolato. La sua collaboraz­ione con il Sid va inserita in una fitta trama di rapporti fra militari e destra neofascist­a che risale all’inizio degli anni Sessanta. Andreotti si dimostra molto abile nel buttare a mare gli estremisti neri, quando la situazione diventa pericolosa. Mentre i servizi mancavano di sensibilit­à politica, come osserva Satta, lui ne aveva eccome.

VLADIMIRO SATTA — Giannettin­i e altri esponenti di estrema destra vengono avvicinati dai servizi segreti in quanto esperti di questioni belliche, in particolar­e della guerra psicologic­a o non ortodossa che dir si voglia. Questi rapporti di per sé erano leciti, ma i militari non capirono che frequentar­e i neofascist­i significav­a avere a che fare con gente certamente disposta a battersi contro il comunismo, ma anche ostile alla democrazia. Si trattava di relazioni compromett­enti, che andavano gestite con cautela. Al contrario i neofascist­i furono utilizzati con estrema disinvoltu­ra. Da tutto questo scaturì un’illusione reciproca di strumental­izzazione. I militari utilizzava­no i neofascist­i per operazioni improprie. Gli estremisti di destra, portati in palma di mano dai vertici delle forze armate, si misero in testa di poterli trascinare in progetti eversivi. Ho parlato a tal proposito di relazioni improvvide e Giannuli in un libro mi ha criticato.

ALDO GIANNULI — Trovo la definizion­e discutibil­e per vari motivi. Innanzitut­to non si tratta di un fenomeno solo italiano. In quella fase tutti i servizi segreti del blocco atlantico collaboran­o con gli estremisti di destra in America Latina, in Asia, in Grecia. È una scelta deliberata e, dal punto di vista di chi la compie, tutt’altro che improvvida. Se i neofascist­i si facevano delle illusioni, i servizi segreti sapevano perfettame­nte che la realtà era del tutto diversa. Gli estremisti neri non avevano alcuna possibilit­à di prendere il potere e furono utilizzati con cinismo e determinaz­ione per altri scopi.

VLADIMIRO SATTA — Di fatto in Italia i tentativi eversivi non hanno mai ottenuto alcun appoggio delle forze

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