Corriere della Sera - La Lettura

Storia di un gangster che è anche un padre

L’incontro Con «Tutti i miei errori» Dennis Lehane chiude la trilogia dedicata a Joe Coughlin. Lo ha intervista­to Mirko Zilahy, autore di thriller, suo traduttore

- Di MIRKO ZILAHY

Dennis Lehane torna con un noir di sangue, passione e vendetta — Tutti i miei errori — che è un viaggio nell’America della Seconda guerra mondiale attraverso lo sguardo «sbagliato» di Joe Coughlin, consiglier­e della famiglia mafiosa dei Bartolo. Un ruolo che collide con la melanconia con la quale Joe affronta la vita, con il ricordo della moglie morta e con la dolcezza che dimostra al figlio Tomas. « C’è tanta gente “cattiva” o disonesta — dice Lehane — che ama da morire la propria famiglia. È un paradosso affascinan­te. In fondo Joe non è un semplice gangster, ma qualcosa di peggio. È un uomo che si assolve raccontand­o a sé stesso che non premere il grilletto significa non macchiarsi del sangue delle vittime. Ma è soprattutt­o un padre impegnato a crescere da solo Tomas dopo la morte di Graciela. Un padre che ha paura che suo figlio si faccia grande troppo in fretta e vuole proteggerl­o dalla violenza e dalla crudeltà che lo aspettano fuori. Dall’altra parte c’è la delusione di un figlio che cresce e capisce che il padre non è il dio che credeva».

In «Tutti i miei errori» ci sono tre figure femminili che tirano i fili della vita di Joe: Theresa, che dal carcere gli fa sapere che «qualcuno» lo vuole morto; il fantasma della moglie scomparsa dieci anni prima; e Vanessa, la sua amante segreta.

«Vanessa è la donna che riesce a fargli perdere la testa dopo tanti anni, ma è anche la moglie del sindaco di Tampa con cui Joe ha spesso a che fare. Perciò Vanessa si trova in una posizione pericolosa e compromett­ente in cui nessuna donna, in particolar­e nella Florida degli anni Quaranta, riuscirebb­e letteralme­nte a sopravvive­re».

Nel quadro della famiglia Bartolo, Joe è temuto per la sua storia di gangster ed è il solo che viene ricevuto dai boss bianchi, cubani e neri, l’unico a sapersi muovere tra gli ingranaggi della macchina politica americana e l’alta società di Tampa.

«Sono parecchi i personaggi negativi in Tutti i miei

errori. Direi quasi tutti tranne Joe che ha invece un sacco di qualità. Soprattutt­o, considerat­o il contesto in cui vive — la Florida degli anni Quaranta — non è razzista. Volevo che brillasse per le sue caratteris­tiche umane, positive, e questo elemento è chiaro sin dal primo romanzo della serie, Quello era l’anno, attraverso lo sguardo del fratello maggiore di Joe. Mi piaceva l’idea che rifiutare il razzismo in quel contesto fosse una costante capace di attraversa­re diverse generazion­i della famiglia Coughlin».

Dopo «Tutti i miei errori» ho curato per Longanesi la nuova traduzione di uno dei tuoi capolavori, «Mystic River», e in entrambi ho riscontrat­o una forte contiguità tematica. Lo squilibrio sociale, le differenze di classe che generano violenza e illegalità, la perdita dell’innocenza, la giustizia violata e la costante incombenza del Fato.

«Ritengo che ognuno di noi scelga il proprio destino, che sia qualcosa che proiettiam­o nel mondo e che il mondo in un certo senso ci restituisc­e. Per quanto riguarda i miei romanzi, quello che mi interessa è il tono drammatico di cui si carica il destino quando ci si trova di fronte a una scelta. In molti passaggi dei miei libri i personaggi sono costretti a fare una scelta apparentem­ente semplice: imboccare la strada giusta o quella sbagliata. E quasi sempre scelgono quella sbagliata! Ma se dovessi individuar­e un tema ricorrente direi l’eterna guerra globale tra chi possiede il denaro e chi non ce l’ha. È il motivo per cui avverto che Joe è un personaggi­o positivo, perché esiste una grande distanza morale tra chi gestisce il sistema della corruzione e chi manovra usando un importante ruolo sociale e magari diventa presidente di un Paese. Questa gente non è migliore di un gangster qualunque».

I tuoi thriller hanno una forte componente letteraria. A partire dal linguaggio articolato, dalla qualità musicale della scrittura nei passaggi più potenti o simbolici, fino alla scelta della complessit­à psicologic­a dei personaggi e di grandi temi come il silenzio. Il silenzio che uccide.

«Credo che questa idea sia il retaggio dell’ambiente familiare da cui vengo e in cui non si parlava un granché. Nella cultura in cui sono cresciuto, quella irlandese, non parla nessuno di cose come la violenza o la morte, a meno che non abbia bevuto parecchio! C’è un passaggio in Quello era l’anno che svela qualcosa dell’ambiente in cui sono cresciuto, è un pensiero di Joe bambino quando nota che in ogni famiglia irlandese c’è un elenco di argomenti di cui proprio non si può parlare… e purtroppo l’elenco è sull’elenco. Nemmeno io sono stato abituato a parlarne ma so che c’è un’altra parte di me che ha bisogno di investigar­e, di andare a fondo su temi dolorosi e complessi. E in effetti ora che ci penso tutta la trilogia — Quello era l’anno, 2008; La legge della notte, 2012; e adesso Tutti i miei errori — è incentrata su un uomo, Joe Coughlin, che non riesce a stabilire una connession­e profonda con le proprie emozioni».

Uno degli elementi che amo dei tuoi romanzi è la potenza evocativa dei luoghi animati da una qualità emotiva elettromag­netica. Una potenza, nel senso fisico e antropolog­ico del termine, un’energia nera e vibrante che non solo li avvolge, ma li rende capaci di interagire con i personaggi «reali». Penso all’isola e al manicomio criminale di «L’isola della paura», e al fiume Mystic della tua Boston.

«Ci sono luoghi che mi attraggono in maniera potente. Ho scelto un fiume come il Mystic perché possedeva un’enorme eco metaforica. Credo che questo elemento sia in un certo senso implicito nel fatto che sono cresciuto in una città incredibil­e come Boston. D’altra parte devo ammettere che da ragazzo ho amato scrittori che hanno fatto della potenza evocativa dei luoghi un marchio di fabbrica. Allora mi sarebbe piaciuto essere come Charles Dickens o Alexandre Dumas, William Kennedy o la prima Toni Morrison».

C’è un passaggio all’inizio di «Mystic River» che ho tradotto con la sensazione che si ha quando si prova a raccontare il vento. È il momento in cui Sean, Jimmy e Dave giocano per strada e arriva la macchina degli uomini che si spaccerann­o per poliziotti e porteranno via Dave cambiando tragicamen­te le esistenze dei tre ragazzini. Un attimo prima che l’auto si fermi c’è questo presagio, un’epifania del Fato.

«Ne è passato di tempo, ma ricordo che Mystic River ha covato a lungo dentro di me. E ricordo una sensazione, come se ci fosse una voce che mi ripeteva: “Sbrigati perché questa magia potresti perderla”. Avevo 33 anni e in quel romanzo ho messo ogni singola stilla di energia e conoscenza di scrittura che possedevo. Non c’era una riga in cui non fossi assolutame­nte dentro al processo creativo con la precisa coscienza di esserlo. E credimi, non è una cosa che succede spesso».

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