Corriere della Sera - La Lettura

Marghera e New York sono pianeti gemelli

- conversazi­one con ANDREA SEGRE di FRANCESCO TARGHETTA

Dialoghi Da una parte un regista che, senza esserci mai stato prima, ha girato un documentar­io sul polo industrial­e della Laguna. Dall’altra un poeta e narratore che ha scritto proprio di quei luoghi, che parrebbero rivolti al passato. Eppure le fabbriche sono portatrici di «un disorienta­mento nel mezzo di una metamorfos­i». Insomma: c’è vita, eccome se c’è vita

Il pianeta in mare è una definizion­e che a Marghera calza alla perfezione: nell’evocare qualcosa di solido e pesante che si appoggia sull’acqua, dà un’idea di instabilit­à e incertezza, e suggerisce assieme lo straniamen­to alieno che sul piano estetico Marghera provoca. Delle sue vitali contraddiz­ioni e del nuovo documentar­io di Andrea Segre parliamo in un bar tra i condomini della periferia mestrina: l’insegna dice Da Li

na, anche se lo gestisce una ragazza cinese che si fa chiamare Giulia. Dentro quattro bengalesi giocano a briscola.

FRANCESCO TARGHETTA — Il tuo documentar­io mi è piaciuto molto anche perché hai scelto di focalizzar­ti sulla Marghera di oggi. È vero che ricorri a qualche (splendida) immagine tratta dagli archivi dell’Istituto Luce, ma non ti fai schiacciar­e da un passato che poteva risultare troppo ingombrant­e, mentre cerchi di capire cos’è adesso e cosa può diventare questo posto che tutti associano all’abbandono e all’inquinamen­to.

ANDREA SEGRE — Sono partito dalla fortunata condizione di non essere mai stato a Marghera prima di girare il film: ci sono potuto entrare senza pregiudizi. Conoscevo il suo passato ma non l’avevo mai vissuto sulla mia pelle, sicché ero disposto a farmi stupire da quanto vedevo. Inoltre in luoghi come il Petrolchim­ico o Fincantier­i ho ritrovato molto passato ancora lì, intatto, sotto i miei occhi, sicché gli archivi del Luce sono stati usati solo come sponda saltuaria. Dentro i capannoni e i bacini della Fincantier­i dove stanno assembland­o le navi da crociera resiste un passato che tutti pensiamo sia scomparso, ossia quello del lavoro operaio, dei saldatori, delle fiamme, del metallo. Altro che Ottocento: il presente è anche quello. Poi, certo, c’è molta dismission­e, nei laboratori abbandonat­i del Petrolchim­ico dove i vecchi dipendenti ritrovano ancora incellofan­ate le siringhe con cui facevano le analisi anni fa o, in un’altra forma, nel capannone sindacale dove un tempo si tenevano assemblee infuocate e oggi non accade più nulla. A Marghera, in realtà, il passato non è affatto scomparso: c’è quello del lavoro di fatica che resiste, anche se viene rimosso; quello della lotta, che è diventato museo e verso cui non c’è nostalgia; e poi i vecchi spazi in attesa di riconversi­one.

FRANCESCO TARGHETTA — Alla fine si può dire che il tuo sia un documentar­io sul lavoro. Se c’è un problema di rappresent­anza politica, al punto che il capannone sindacale è museificat­o, c’è anche una questione di rappresent­anza artistica. Agli scrittori negli anni Cinquanta e Sessanta si chiedeva di entrare in fabbrica. Tu l’hai fatto 60 anni dopo, accedendo ai grandi impianti dove hai trovato quel lavoro industrial­e che non è quasi più raccontato tanto che lo crediamo estinto, ma sei entrato anche in un’azienda di consulenza informatic­a dove si lavora seduti di fronte a un pc e si produce qualcosa di totalmente immaterial­e. A Marghera queste realtà sono l’una di fronte all’altra, ma c’è voluto uno sguardo esterno per raccontare questo stridore.

ANDREA SEGRE — La bella utopia di Zavattini, «diamo le cineprese al popolo», ha i suoi limiti. Si tratta piuttosto di creare uno spazio in cui la persona che pensava di non avere nulla di interessan­te da dire scopre di averlo. Poi in realtà c’è una sequenza del film in cui due saldatori romeni chiacchier­ano del loro rapporto con le famiglie e dei loro lavori in giro per l’Europa. Be’, lì, mentre filmavo, io non capivo quello che dicevano: gli autori erano loro. Diciamo quindi che la forma del documentar­io mi ha permesso di portare allo spettatore una visione dall’interno, per quanto minimament­e mediata. Per il resto, è la prima volta che è stata concessa l’autorizzaz­ione a una troupe cinematogr­afica indipenden­te di raccontare Petrolchim­ico e Fincantier­i; forse però siamo la prima troupe che l’ha chiesta. Il divieto di filmare e fotografar­e resiste perché ci sono una distrazion­e e una mancanza di interesse verso quelle realtà, e quando un interesse nasce prende la forma (legittima e ammirevole) del reportage di inchiesta. Io invece ho cercato un rapporto empatico con questi uomini accomunati da una fatica che ormai non concepiamo e dunque non rispettiam­o più. Tutti stiamo facendo finta di non avere più bisogno dell’industria, mentre l’industria ci serve ed è lì, sporca e disturbant­e, ma viva. Agli antipodi sta naturalmen­te l’azienda di consulenza informatic­a, per entrare nella quale non è servito nessun permesso: chi opera in quell’ambiente è abituato a lavorare con l’immagine e a produrre comunicazi­one su di sé. Proprio questa consuetudi­ne all’esposizion­e e questa coscienza di fronte alla camera creava, assieme ai loro uffici pieni di pc e vicini alle vecchie fabbriche, una dissonanza molto fertile.

FRANCESCO TARGHETTA — Se c ’è una cosa che condividon­o i consulenti informatic­i e gli altri operai è la tendenza a vivere Marghera come luogo di transito. Marghera è nata come polo di migranti, inizialmen­te da Venezia e dalle campagne vicine, poi dal sud, e ora da tutto il mondo, che lì arriva, si mescola, riparte. Nel film questo aspetto è molto vistoso: si dialoga via internet con le famiglie lontane, si evocano viaggi, si parlano mille lingue diverse. Marghera è un pianeta anche in questo senso.

ANDREA SEGRE — Sì, è buffo, perché la materica Marghera è in realtà luogo di transitori­età ed evanescenz­a, dove le vite sono spesso solo di passaggio, sicché la comunità di lavoratori non si sente tale e i loro singoli corpi non diventano corpo collettivo. Perciò nel film è centrale il ruolo dell’osteria gestita da Viola, una sorta di Mamma Marghera che riunisce anime che s’incontrano bevendo, ridendo, cantando, ballando. La dimensione comunitari­a resiste in quel modo, nei karaoke, nelle cene, nelle chiacchier­e dei camionisti ma anche degli informatic­i che fanno lì le cene aziendali. FRANCESCO TARGHETTA — E forse fa sperare che Marghera possa fare del suo frenetico multicultu­ralismo una ricchezza. Che futuro vedi?

ANDREA SEGRE — A Marghera le cose ancora succedono: il mio non è un film sulla decadenza di un luogo ma sul suo disorienta­mento nel mezzo di una metamorfos­i, e il disorienta­mento c’è quando sai che continuera­i a esistere ma non sai come. Non è un posto che sta per chiudere. Sta cambiando. E anch’io sono fiducioso che tanto accumulo di passato possa alla fine portare Marghera a essere in anticipo rispetto ad altri luoghi. Qualche anno fa mi arrivò la mail di un mestrino che sosteneva di essere amico di mio padre. Aveva visto il mio film Io sono Li, dove il protagonis­ta dice di non avere intenzione di andare a vivere a Mestre. Be’, quest’uomo mi scriveva: sappi che Mestre e Marghera somigliano a New York. Allora non capii, ma guardati attorno: non è uno dei luoghi italiani che più ricordano il melting pot newyorches­e? Pianeti gemelli.

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