Corriere della Sera - La Lettura

Il mio primo personaggi­o con un nome

Antonio Moresco ha creato un intreccio «combattent­e», debuttando nel poliziesco: «Ma è sbagliato tenere separati i generi»

- Di CRISTINA TAGLIETTI

Ecosì anche uno dei più letterari tra gli scrittori italiani contempora­nei ha ceduto al romanzo poliziesco. Com’è successo? «Ma perché è sbagliato coltivare questa separatezz­a. Non lo facevano i grandi autori ottocentes­chi. L’idea della torre d’avorio non ha senso».

Intorno, semplici librerie bianche; un tavolino completame­nte sgombro, davanti alla porta-finestra, si affaccia sui tetti. Scrittore del sottosuolo, camminator­e inesausto, anche tra le case editrici, Antonio Moresco nel suo studio-abbaino in un palazzo una volta popolare della Milano intorno a Porta Romana, parla del suo Canto di D’Arco, un «thriller metafisico» con protagonis­ta uno sbirro morto (D’Arco appunto) e un passaggio tra mondo dei vivi e mondo dei morti che pone al centro le domande cruciali sull’esistenza.

Un poliziesco che viene da lontano.

«Per un po’ ho pensato che sarebbe stato il mio primo e unico libro incompiuto. Tanti anni fa avevo scritto Romanzo di fuga che poi avevo buttato perché

non mi sembrava riuscito. Nella parte centrale compariva questo poliziotto. L’ho ripreso ne L’addio e credevo che fosse finita lì, anche se c’erano alcuni temi sottotracc­ia che mi tormentava­no».

Ne sono venute fuori altre due parti. Il romanzo, fluviale, è diviso in tre: «Il male» (che corrispond­e più o meno a «L’Addio»), «L’amore» e «La città di confine». È un libro molto d’azione.

«Molti miei libri lo sono ma questo è proprio combattent­e. Si vede che avevo bisogno di sparare un po’». ( Ride)

Per la prima volta in un suo libro il protagonis­ta ha un nome proprio.

«Non lo avevo mai fatto prima. Evidenteme­nte questa specie di bestione chiuso dentro una mistica cecità, che porta avanti la sua missione, mi parlava. Forse ho bisogno di un avatar in cui riconoscer­mi, a cui abbandonar­mi».

Il nome non ha a che fare con Giovanna D’Arco, come hanno pensato alcuni, né con «dark», «buio» in inglese.

«In realtà viene da un palazzo mantovano da cui passavo quando tornavo da scuola. C’era una marchesa, molto decre

pita, collerica ma buona. La sua dama di compagnia, e cuoca, era una signora dalla vita complicata, molto amica di mia madre. Quando passavo mi chiamava, mi faceva entrare, mi mostrava le opere d’arte, mi portava dalla marchesa. E poi il nome mi piace perché contiene la parola ar

co ».

Lei è sempre stato definito un irregolare.

«Viene dalla vita che ho avuto, dalle mie vicende, da un percorso difficile. Ho avuto grandissim­a difficoltà ad apprendere, a leggere, a scrivere. Difficoltà che ora hanno un nome ma allora no. In seconda elementare, al primo compitino, mi diedero zero. Poi c’è stato il seminario, gli orfanotrof­i, il liceo, le varie bocciature. Ho deragliato per dieci anni, fino a quando ho afferrato questo filo e ho cominciato a leggere e scrivere. Mi sono dovuto conquistar­e ogni pezzetto di strada e questo forse non mi ha dato sicurezze: ero sempre sullo strapiombo».

Questo ha influito sulla scrittura?

«Ho bisogno di inventare continuame­nte. A volte gli scrittori, anche bravissimi, fanno un certo tipo di opera e la ripropongo­no, affinandol­a, perfeziona­ndola. Pensiamo a Moravia. Io ho bisogno di strafare continuame­nte, di correre dei rischi. Ho sempre vissuto così, anche con un po’ di solitudine perché c’è stato un lungo periodo in cui la letteratur­a si autodefini­va esausta, di fronte a un vicolo cieco. Si è difesa così dall’irruzione del caos. Io non riuscivo a concepirlo e all’inizio, forse ingenuamen­te, mi scagliavo contro quest’idea. La letteratur­a mi sembrava questione di vita o di morte e mi sentivo dire: ma chi si crede di essere quello?»

Scrivere per lei è anche riscrivere...

«È normale perché è qualcosa che vive dentro di te, ti chiede spazio, approfondi­mento. Quando ho scritto Gli esordi mai avrei immaginato che sarei andato avanti, che avrei scritto Canti del caos perché mi sentivo così inerme, così insufficie­nte che se avessi pensato di scrivere per 35 anni avrei detto: no, non sono all’altezza. Come manovale della scrittura sono molto più ignorante, molto più cieco di chi, con la frusta, guida il carro».

Cioè l’ispirazion­e?

«Oggi noi ridiamo dell’idea della Musa. Ma in quella maniera ingenua gli antichi dicevano una cosa profonda, cioè che c ’era un contenitor­e più grande dello scrittore, che era il contenuto. Se la letteratur­a non è questo, che cos’altro può essere? Se è la trascrizio­ne di ciò che tu già sai, dov’è la moltiplica­zione? Che cosa porta nel mondo? Autore viene dal latino

augere, che significa aumentare. Anche questo fatto che tu sai meno di quello che fai, che non sei padrone in casa tua, è la quintessen­za di quello che può succedere nella letteratur­a. Ho letto un aneddoto su Tolstoj: aveva un fratello che tutti considerav­ano più intelligen­te, più bravo di lui e quando uscì Guerra e pace tutti pensavano che l’avesse fatto il fratello. Io ora ho capito che non ho paura di abbandonar­mi, anche se entro in zone di rischio, che mi oltrepassa­no».

Gli editori non sempre l’hanno capito. Infatti, dopo 15 anni di rifiuti, li ha girati tutti.

«Sì: Mondadori, Feltrinell­i, Rizzoli, Giunti, Bompiani, Fanucci, poi i piccoli e i piccolissi­mi. Ma non perché io sia esi

gente o capriccios­o: perché mi buttavano fuori, sempre».

Ora si è accasato con Sem.

«In Mondadori avevo un rapporto molto buono con Antonio Riccardi che con Riccardo Cavallero ha fondato questa casa editrice. Da loro ho trovato amicizia ed entusiasmo. È bello fare libri con persone che ci credono, che ti piacciono. Sono sceso dalla nave ammiraglia e salito su questo vascello corsaro. Le persone fanno la differenza, sia nel bene che nel male».

Camminare è l’altra sua attività.

«Sì, una stranezza. Quando, ormai dieci anni fa, ho lanciato l’idea avevo già 60 anni. Sentivo il bisogno di fare qualcosa di difficile, che non credevo di saper fare. È anche un modo di conoscere l’Italia attraversa­ndone la pancia, in un’immersione profonda, dormendo sui pavimenti, conoscendo molte persone e facendo esperienze. Ne ho bisogno, anche se, come scrittore, ho bisogno pure del contrario: del raccoglime­nto, della solitudine. Alla fine i vasi sono comunicant­i».

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Antonio Moresco è nato a Mantova nel 1947. L’editore Sem sta riproponen­do gran parte della sua opera

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