Corriere della Sera - La Lettura
Senza Texas addio Trump L’America passa da qui
Ha indagato su Scientology e vinto un Pulitzer per un’inchiesta sull’11 settembre Adesso Lawrence Wright racconta lo Stato che sarà decisivo alle presidenziali del 2020
La d e c i ma e c o n o mi a d e l mondo è lo Stato che combattè contro il Messico (anche) per non abolire la schiavitù, ed è la casa del presidente che promulgò le leggi per i diritti civili, Lyndon B. Johnson. È lo Stato del petrolio, ma Austin ospita uno degli hub tecnologici più importanti del Paese. Ha dato all’America Bush padre (arrivato dal Massachusetts) e Bush figlio, insieme ad alcune delle declinazioni più retrograde del Partito repubblicano, ma i cambiamenti demografici potrebbero consegnarlo ai democratici, modificando la geografia politica degli Stati Uniti. Eppure, racconta il premio Pulitzer Lawrence Wright, che gli ha dedicato Dio salvi il Texas (Nr edizioni), «la maggior parte delle persone pensa sia un monolite: rurale, conservatore, popolato da cowboy... quando invece è un’esplosione di contraddizioni che si evolve con estrema velocità». Un libro che è insieme biografico e politico, racconto di viaggio e analisi storica.
Il Texas, lei scrive, è rosso (colore dei conservatori), ma dovrebbe diventare blu (democratico).
«Guardi la mappa: ha il morbillo blu, è blu in tutti i punti dove ci sono ce nt r i ur ba ni . I re pubbl i ca ni i n Texas e in tutto il Paese sono in serio pericolo, perché si sono costruiti l ’ i dentità del “parti to dell ’ uomo bianco” e non funzionerà nel futuro. Il Texas è già uno Stato dove le minoranze sono maggioranza e così sarà presto tutto il Paese. Parlare solo alla propria tribù è catastrofico».
La svolta a destra dei repubblicani si accentua con George W. Bush, texano di cui lei non parla troppo male...
«A Bush piaceva corrispondere allo stereotipo: non c’era alcuna ragione di camminare in quel modo! Me l’ha detto spesso: “La differenza tra me e mio padre è che io sono un vero texano!”. Detto questo, lui si era candidato parlando di “conservatorismo compassionevole”, ma tutto è cambiato con l’ingresso nell’amministrazione dei neocon, sponsorizzati da Dick Cheney. George W. mi piace come persona: spesso mi trovo a fantasticare che la sua presidenza e quella di Bill Clinton fossero invertite. Il secondo ha governato in un periodo storico positivo, che sarebbe stato perfetto per Bush, mentre Clinton davanti a una crisi nazionale avrebbe fatto molto meglio, invece di mettersi nei guai da solo».
«Don’t California my Texas», è uno slogan usato dai repubblicani per scongiurare l’avanzata dei democratici, ma un tempo, come lei scrive, la California era il Texas e il Texas la California: la prima ha prodotto Reagan e la rivoluzione repubblicana, il secondo Johnson e il suo piano di sviluppo dello Stato sociale, «The Great Society»...
«Quando ero bambino la mia famiglia si trasferì in Texas dall’Oklahoma. Mio padre, che aveva combattuto la Seconda guerra mondiale, era un Eisenhower republican, pur essendo cresciuto in una famiglia democratica. All’epoca non c’erano praticamente repubblicani eletti in Te x a s , e n o i f a c e v a mo p a r t e d i un’ondata di nuovi arrivi con tradizioni differenti, che avrebbe cambiato l’orientamento politico dello Stato, la stessa cosa che sta accadendo adesso ma al contrario. E non solo nelle città, che sono blu da tempo, ma anche nei sobborghi: erano rosso brillante, ma nelle ultime elezioni sono diventati viola. Se i democratici nomineranno un candidato abbastanza moderato da piacere alla grande maggioranza dei texani, che sono centristi, ci sarà una rivoluzione nella politica americana».
Il Texas è il Santo Graal, ma ci sono altre strade per i democratici per riconquistare la Casa Bianca.
«Certo, ma nessuna altrettanto trasformativa. Senza il Texas i repubblicani non possono vincere la Casa Bianca. E se il Texas cambia colore, a ruota lo faranno l’Arizona, la Georgia, la Florida, e ci ritroveremmo in un Paese del tutto diverso».
I democratici, impegnati nelle primarie, l’hanno capito?
«Non lo so, hanno una chance storica, ma quando li vedo tutti alzare la mano per dirsi a favore della copertura sanitaria universale, ho paura che abbiano già perso. Credo che tutte quelle mani fossero per accontentare gli elettori delle primarie, ma che disastro. Anche perché qui non c ’è in gioco solo il prossimo presidente. Il 2020 è l’anno del nuovo censimento, che si porta dietro la riallocazione dei distretti: il Texas avrà due o tre nuovi seggi alla Camera e sarà il Parlamento locale a disegnare le mappe che di solito determinano il destino di ogni circoscrizione. Per fare un esempio, Austin, che era il distretto di Lyndon Johnson ed è una città ultra-liberal, al Congresso è rappresentata da quattro repubblicani: il mio deputato è un rivenditore di auto a oltre duecento miglia da me».
Lei descrive il confine come un luogo, non come una frattura.
«Sì, è come un Paese a parte. In passato i migranti che lo attraversavano erano uomini soli, l’onda arrivava quando c’erano lavori disponibili, retrocedeva quando non ce n’erano. Sia gli Usa che il Messico ne beneficiavano e quindi c’era una ragione per voltarsi dall’altra parte. A cambiare le cose sono stati i tumulti nel Centroamerica, che hanno provocato il movimento migratorio di migliaia di famiglie in fuga dalla violenza: molti di loro non scappavano dalle autorità, anzi si consegnavano a migliaia. Per questo servono giudici: la gente arriva e riceve una convocazione in tribunale che può essere due anni più tardi, e allora scompare, come farebbe chiunque».
A El Paso c’è stata una delle ultime, terribili stragi. Eppure le leggi sulle armi non hanno fatto alcun passo avanti.
«Servono misure nazionali, non statali: Chicago, che ha una tra le leggi più restrittive degli Usa, ha un triste record di sparatorie e troppe armi in giro, perché l’Indiana, proprio di fianco, ha leggi più lasche. Ma sono ottimista perché credo che la lobby delle armi si sia spinta troppo oltre, alienandosi tanti elettori: anche se hanno Trump in tasca, il clima politico sta cambiando».