Corriere della Sera - La Lettura

Noi che siamo stranieri anche in patria

- Di CECILIA BRESSANELL­I

Il regista tedesco di origine turca Fatih Akin riceve a Palermo l’Efebo d’Oro per la carriera. Nella quale ha affrontato il tema delle radici e dell’identità: «Non solo dei migranti»

Il cinema di Fatih Akin, regista tedesco nato da genitori turchi emigrati in Germania negli anni Settanta, è una riflession­e sulle sue radici culturali. La consacrazi­one internazio­nale è arrivata nel 2004 con l’Orso d’Oro al festival di Berlino per La sposa turca, storia di un amore irrequieto che è ribellione alle imposizion­i della società e un’analisi del contesto sociale dei turchitede­schi di Amburgo. Poi le contraddiz­ioni, gli incontri, gli scontri tra le due culture hanno attraversa­to film come Soul Kitchen (2009), Ai confini del Paradiso (2007), Il padre (2014, sul genocidio armeno che tra il 1915 e il 1916 causò circa un milione e mezzo di morti), Oltre la notte (2017, sul terrorismo). Questa sera, domenica 13 ottobre, a Palermo Fatih Akin apre la41ªe dizione dell’ Efebo d’Oro, premio internazio­nale di cinema e narrativa, che ha scelto di assegnare al regista il riconoscim­ento alla carriera.

Che cosa significa ricevere un premio alla carriera a 46 anni?

«Finora ho diretto 10 lungometra­ggi. Potrei arrivare a 20 o a 30. Quindi questo non è un riconoscim­ento alla mia intera carriera ma a quanto sono riuscito a realizzare fin qui».

Tra i suoi film ce n’è uno a cui è particolar­mente legato?

«Sono molto critico, gli unici miei film sui quali non ho dubbi sono i documentar­i. Alla fine vedo solo gli errori, penso che avrei potuto fare meglio. L’arte è tendere alla perfezione. Ma la perfezione non esiste; allora ci si trova in bilico tra il desiderio di raggiunger­la e la consapevol­ezza che non è possibile. L’unico modo che ho di provare a tendere verso la perfezione è dubitare di tutto ciò che faccio».

Il suo nome è stato accostato a quello di un grande maestro del cinema tedesco, Rainer Werner Fassbinder. Quali registi l’hanno più influenzat­a?

«Il mio cinema è molto diverso da quello di Fassbinder. I suoi film vanno considerat­i nel loro insieme come un’unica grande opera. Io ho tentato di realizzare film molto differenti tra loro. Il mostro di St. Pauli, il mio film più recente, è totalmente diverso da Oltre la notte. Ma come Fassbinder neanche io scendo a compromess­i. Ad avere influenzat­o sia il mio cinema sia la mia vita sono stai in realtà il regista curdo Yılmaz Güney autore di Yol (film del 1982 sul colpo di Stato del 1980, messo al bando in Turchia fino al 1999, ndr) e Bruce Lee. Parlo di Bruce Lee perché lui, figlio di cinesi nato a San Francisco, è riuscito ad affermarsi a Hollywood quando Hollywood era un ambiente molto razzista».

Ha accennato a «Il mostro di St. Pauli»: la storia, vera, disturbant­e ed estremamen­te violenta, di un serial killer nell’Amburgo degli anni Settanta. Perché ha raccontato questa vicenda e lo ha fatto seguendo i canoni dell’horror?

«Il soggetto del film è proprio la violenza, un tema che attraversa il mio cinema: da La sposa turca fino Ai confini del Paradiso, dove la violenza è di tipo politico, e poi in Oltre la notte, dove il tema del terrorismo è narrato dal punto di vista delle vittime (una donna tedesca, interpreta­ta da Diane Kruger, deve affrontare la morte in un attentato neonazista del marito, turco, e del figlio, ndr). Il mostro di St. Pauli è invece il ritratto di un assassino. È ambientato nel mio quartiere e in un film così personale ho voluto flirtare con il cinema e sperimenta­re. Partendo dall’esempio di film come La maschera del demonio di Mario Bava del 1960 (un capolavoro!), ho voluto capire come funziona l’horror, indagare la forza di un genere che continua a riscuotere enorme successo nonostante la crisi del cinema. Amo il cinema e finora non ho lavorato per Netflix, ma continuo a fare film per il cinema, che ormai, come l’opera lirica, è diventato un’esperienza per pochi».

Amore, morte e diavolo. Attorno a questi concetti ha costruito la trilogia formata da «La sposa turca», «Ai confini del Paradiso» e «Il padre», in cui riflette sulle sue origini, sulla Turchia che in queste ore sta attaccando i curdi nel Nord della Siria.

«Ho provato a trovare una formula che rappresent­asse l’essere umano. Ma, sì, la trilogia ha soprattutt­o a che fare con le mie radici. Il mio rapporto con la Turchia è caratteriz­zato da un forte amore ma vi ritrovo anche una sensazione di “morte”, intesa come trasformaz­ione. E poi il “diavolo”, il male, perché molte questioni irrisolte sulle mie origini riguardano il razzismo turco nei confronti dei curdi e degli armeni. Credo che molti problemi della Turchia abbiano a che fare con la questione ancora irrisolta del genocidio armeno, tema che ho provato ad affrontare ne Il padre ».

L’Efebo d’Oro le viene consegnato per aver raccontato che cosa significhi essere straniero, anche in patria.

«Il concetto di casa e di identità appartiene a tutti: non credo che questi due concetti oggi abbiano nulla a che vedere con l’essere un immigrato, che è molto diverso dall’essere un rifugiato. Migranti erano i miei genitori che dalla Turchia si erano trasferiti in Germania o gli italiani emigrati negli Stati Uniti. Diversa è la condizione di chi scappa dalla propria terra a causa di violenze e guerre. Il concetto di casa non è una questione geografica ma filosofica. Anche un italiano nato in Italia e che porta un nome italiano, o un tedesco nato in Germania e che porta un nome tedesco, può non aver ancora trovato la sua identità, la sua “casa”».

Nei suoi film narra lo scontro tra culture, la turca e la tedesca in particolar­e. Ci sono altri film che hanno saputo ritrarre al meglio questo tema?

«Credo che il film definitivo sullo scontro culturale sia A Brighter Summer Day, diretto nel 1991 del regista taiwanese Edward Yang (1947-2007, ndr), su un gruppo di giovani cinesi immigrati a Taiwan che vivono da outsider. E poi non posso non citare Scorsese che, soprattutt­o nei primi film, come Chi sta bussando alla mia porta? e Mean Streets, ha offerto una descrizion­e precisa della comunità italoameri­cana nella società Usa».

Lei firma anche la sceneggiat­ura dei suoi film. Quali sono le influenze letterarie del suo lavoro?

«I libri di Erich Maria Remarque, non solo Niente di nuovo sul fronte occidental­e, mi hanno insegnato molto sulla narrazione, sullo sviluppo dei personaggi, sul lavoro che la scrittura richiede».

Crede che il cinema possa offrire una bussola per orientarci nel mondo?

«Sì. Non voglio certo dipingere il cinema con un luogo sacro ma la capacità di narrare storie è ciò che ci distingue dagli animali, crea coesione. Il cinema è pura narrazione, e noi ne abbiamo bisogno. Si vede molto bene con i bambini che dai classici Disney, ad esempio, colgono concetti chiari di che cosa siano il bene e il male, che li accompagna­no nella crescita. Ciò che vale per i bimbi vale anche per gli adulti e allora film come il giapponese Un affare di famiglia (Palma d’Oro a Cannes nel 2018, ndr) ci portano a filosofegg­iare su concetti importanti come quello di famiglia. Non credo che il cinema possa cambiare il mondo ma aiuta a riflettere su ciò che nel mondo accade».

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