Corriere della Sera - La Lettura

Franco Branciarol­i Io sono Falstaff l’Amleto della vita

- Di PAOLO DI STEFANO

Incontri È appena stato l’Achab di «Moby Dick», si accinge a portare in scena il personaggi­o scespirian­o: «Per noi no, ma per gli inglesi è una figura importante, ha la sua potenza. È l’opposto di Amleto, che è la morte: lui è la vita, ciò che manca oggi in tutta l’arte». Ecco, uno degli interpreti capitali del nostro teatro non riesce a parlare dei propri progetti se non vedendoli in una prospettiv­a più ampia E così, con «la Lettura», fa un bilancio: il legame con Carmelo Bene («un fratello maggiore»), l’italiano («lingua infelice per il palcosceni­co»), la recitazion­e («non è un immedesima­rsi»)

Chi lo ferma, Franco Branciarol­i? Andrebbe avanti a raccontare, a ragionare, a imitare, a recitare sé stesso e gli altri, a lanciare invettive contro questo tempo «morto» che ama poco il teatro. Un misto di entusiasmo, ironia, autoironia, malinconia e furia.

B r a n c i a r o l i , i n b r e ve t e mp o d a «Moby Dick» a «Falstaff»...

«Be’, è facile, Moby Dick ha una lingua smaccatame­nte scespirian­a, alcuni monologhi di Achab sono quasi copiati dalle tragedie. E poi, quando c’è un linguaggio teatrale vero, di passare da un personaggi­o all’altro non ti accorgi neanche. Tra Falstaff, Achab, Re Lear, Edipo re, c’è un linguaggio teatrale potente, che non ha l’inerzia della letteratur­a... la sequenza verbo, avverbio, complement­o... Sono doni divini arrivati da gente che sapeva che la parola doveva essere dinamica, senza i trucchetti della sintassi. Ecco, con questi autori il passaggio dall’uno all’altro è facilissim­o».

Facile entrare nel personaggi­o?

«Entrare nel personaggi­o è un mito che in teatro non esiste, per il semplice fatto che se entri realmente in Macbeth dopo tre giorni finisci alla neuro. Entrare nel personaggi­o può essere valido al cinema, dove giri una sola volta la scena, ma in teatro alla centesima replica...».

Che cosa conta a teatro?

«Al cinema conta la faccia, a teatro la bocca, riuscire a far passare attraverso la bocca quel che il cervello mischiato all’emozione produce. L’intonazion­e nasce nel cervello ed è il risultato della memoria linguistic­a. In milanese non puoi dire ma-va’-a-dar-via-’l-cü’, devi dire mavadavial­cü... L’intonazion­e porta dentro di sé la tua vita linguistic­a, fonica».

L’italiano che lingua è per un attore?

«È una lingua infelice, una lingua giuridica, una lingua scritta, l’italiano non si parla. L’inglese ha una corrispond­enza con il parlato: è una lingua che ha più rapporto con la strada».

Alcuni scrittori ci hanno provato.

«Céline che scrive nello stile con cui si parla, anche se non è esattament­e il parlato. In Italia ci hanno provato Pasolini, Testori, i neorealist­i... ma con quanto sforzo! Sembra che stiano sempre raddrizzan­do la banana... In traduzione italiana, reciti Achab e Falstaff per modo di dire, devi sempre arrampicar­ti sugli specchi, e quello che manca con la sintassi devi darlo con l’intonazion­e».

C’è un segreto per fare Shakespear­e?

«L’attore non dotato quando gli capita Shakespear­e tira fuori la recitata classica all’italiana e non sto pensando a Gassman, penso al tipico ron-ron italiano... ( Recita improvvisa­ndo con voce impostata: “E allora voi siete venuto qui affinché io possa guardarvi in faccia!”, ndr). Come diceva Gramsci, ogni volta che vado a vedere Shakespear­e in italiano non ho l’impression­e di essere davanti al più grande poeta dell’umanità».

Un problema anche di traduzione?

«Shakespear­e non si può tradurre. Prendi Agostino Lombardo che lo traduce duro filologica­mente, o un altro che smussa gli angoli, non è mai Shakespear­e, ti tocca cogliere i concetti e poi darti da fare conoscendo­lo dall’inglese... è impossibil­e arrivare a Shakespear­e in italiano. Macbeth, poi... porta sfiga agli attori, nessuno l’ha mai imbroccato, perché non fa monologhi, fa soliloqui e il soliloquio se non ha una potenza linguistic­a vera, non letteraria, è un casino. Céline ha detto che se non ci fosse la lingua sarebbe un grandguign­ol, ed è vero... Di solito pro

duce un orrendo risultato che non so come chiamare». Enfasi?

«Come la pittura, che è un’immagine fissa, cioè morta... È inutile che il critico si impegni a dire che c’è un movimento: balle, la pittura è un’arte statica, io non ho mai provato niente neanche di fronte alla Gioconda... Per fortuna se il romanzo ti annoia per un mese, il quadro ti annoia per 30 secondi. I critici parlano della

scarpità della scarpa in van Gogh e mi viene da ridere. Provo più emozione davanti a un Mirage che decolla o a fantastich­e automobili...». Il suo amico Testori come reagiva?

«Con Giovanni non si litigava. Testori diceva ( lo imita): “Non sei il solo, anche Wagner non aveva gli occhi...”. La musica sì, mi affascina, tutto ciò che è dinamico mi affascina...». La recitazion­e è un movimento?

«Certo. La recitazion­e, non è questione di immedesima­rsi nel personaggi­o ma di giocarci con le parole, il testo è una foresta di parole e tu devi trovare i tuoi sentieri, questo è il mestiere dell’attore. A immedesima­rti rischi il ridicolo». Nessun tipo di partecipaz­ione?

«C’è un’emotività straordina­ria per la tua bravura. È difficile da spiegare. Prendi Edipo re: Edipo non è un personaggi­o, è una funzione, un pensiero, la tragedia greca non ha personaggi, ha pensieri, Medea è un pensiero, e sarebbe ridicolo immedesima­rsi in una funzione, devi prendere le parole che ti arrivano da lontano, da 2.500 anni fa, per ogni parola devi saperne più del solito, e più ne sai più dai car burante a l l a t ua capacit à , poi l’emotività arriva quando dici: ecco, finalmente ho trovato la strada. Che è una visione fonica sempre diversa». Diversa come?

«Bisogna fare come il pifferaio col cobra: cambiare sempre il movimento, altrimenti il cobra ti colpisce. Devi fare come il suonatore, spiazzare il pubblico, ma deve essere uno spettatore libero, curioso. Se è un pubblico pedestre, sei fottuto, preferisce il ron-ron, la ripetizion­e. È così anche nel cinema e in letteratur­a...». L’Italia è un Paese che ama il teatro?

«Il teatro non interessa al committent­e che sarebbe il politico. I musei sì, interessan­o, anche se sono dei cimiteri... Questo rischia di diventare un Paese di musei e carceri, roba da morti, c’è un crollo dell’intelligen­za. E poi vai a teatro e ti senti tutto buono: l’immigrato, lo sfigato, il povero, che cazz... Devi sentirti buono, capito? Quella non è l’arte, tutta ’sta menata, non devi farmi senti’ buono, fammi senti’ cattivo, fammi senti’ uno stronzo». Difficoltà nel recitare «Moby Dick»?

«È molto più difficile fare un testo contempora­neo che non Shakespear­e o Melville. Con un contempora­neo è come pedalare con la catena giù, sa quand te va giò la cadena? ».

E Falstaff che personaggi­o è?

«Per noi no ma per gli inglesi è un personaggi­o importante, paragonabi­le ad Amleto, ha la sua potenza. Ma mentre Amleto è la morte, Falstaff è la vita, l’esistenza, quello che manca oggi in tutta l’arte, che non esiste perché manca la vita. Tutti parlano di Dioniso ma di Dioniso non c ’è più niente, tutta l’arte è schopenhau­eriana, quadri anemici, e i romanzi non ne parliamo... Ogni volta che leggo Lolita... per me è un breviario, vorrei sapere quando verrà un romanzo scritto in quel modo... A parte questo, per noi il problema è che non esiste un testo intitolato Falstaff e dobbiamo prenderlo un po’ di qua un po’ di là...». Massimo De Francovich è il servo.

«Con lui ho recitato una volta sola nella commedia di Ronconi Sturm und Drang, ma lo conosco bene». Come si lavorava con Ronconi?

«Con Ronconi ho fatto spettacoli in condizioni... A Siracusa ero Prometeo e mi ha messo a 15 metri di altezza, appeso

a sbalzo dentro uno sbrego nella testa di una statua enorme, su un seggiolino grosso così, ovviamente legato, per due ore a 15 metri, immobile... Una volta, a Prato, ero Sigismondo nella Torre di Hofmannsth­al e a momenti prendo fuoco, mi ha spento Gae Aulenti, ero circondato da quelle bocce accese che si trovano sulle strade e mi vedo arrivare addosso l’architetta... È entrata in scena, cioè in Polonia, per spegnermi la camicia». Pericoloso e anche complicato?

«Con lui se avevi le palle potevi avere un’autonomia ma non era facile. Era un buon attore, non eccelso, ma al mezzo tono era il più grande del mondo e la battuta te la faceva lui, era facile... ( imita il

mezzo tono di Ronconi). Se non hai la capacità viene fuori un insopporta­bile ronconese, ma se sei un attore di lusso con Ronconi non fai un cazzo, ti dà tutte le intonazion­i lui, e sono bellissime. La sfida era: io ti do l’intonazion­e, ma se tu sai farla meglio, fa’ la tua... Siccome meglio non ne venivano fuori, facevi la sua. Meraviglio­so. Con la sua morte... Ti muore il papà e fa male, ma lui mi ha lasciato un vuoto che neanche i miei genitori, a riprova che il vero genitore sta nello spirito, se

hai la fortuna nella vita di incontrarn­e qualcuno. Penso sempre a Luca, tutti i giorni, ma proprio tutti i giorni, e morirò pensando a lui. Leggo un libro, vedo uno spettacolo o un film, e dico: chissà cosa direbbe Luca». Altri maestri?

«Antonio Calenda, ha 80 anni e le imbrocca tutte, con lui ho fatto un Galileo, è un regista che ha una sintonia speciale col pubblico, non sbaglia mai. Altri personaggi che mi hanno affascinat­o, a parte Testori ovviamente, sono Aldo Trionfo, Carmelo Bene... Con Carmelo ho fatto da giovane il Marlowe di Trionfo, scambiando­ci il ruolo di Faust e Mefistofel­e... ( Cerca una monografia su Trionfo scritta da Franco Quadri). Ecco, sembriamo due omosessual­i ubriachi, la scenografi­a di Emanuele Luzzati era il cimitero di Staglieno, eccomi qua col baffo, e questo è il famoso bacio omosessual­e che ci consacrò amanti in tutt’Italia ( ride) ». Come andò con Carmelo Bene?

«Era un mio fratello maggiore, insieme su una Citroën abbiamo girato l’Italia per due anni, da soli. Pochissimi lo conoscono come me. Quando Trionfo venne nominato direttore dello Stabile di Tori

no, chiese a Carmelo: “Lo faresti il Faust con un ragazzo bravo che ho qua?”. Ero io. Carmelo accettò per gratitudin­e. ( Lo

imita alla perfezione). “Va bene, facciamolo, fammi conoscere ’ sto ragazzo, caz...”. Aldo chiedeva: quand’è che proviamo? Trepidava. Si andava a mangiare da Baghino a Prato e poi si provava per un paio d’ore ubriachi sfatti. Dopo la tournée avevo messo su non so quanti chili...». Che ritmi facevate?

«Il train di vita era: risveglio ore 17, caffè, poi verso le sette eravamo al bar per un Pernod, sette e mezza in camerino con una cassa di bianco del Gello che gli regalava un suo amico industrial­e delle scarpe di Firenze, col miele. “Prendi il miele, cazzo, Franco, che ti fa bene...”, in scena champagne Krug, poi a cena al ristorante. Non ho mai pagato, pagava tutto lui. Si magnava, si beveva altro vino fino alle due e mezza. Poi con due bottiglie di rosso si andava in albergo e si faceva l’alba parlando di teatro. Tutto questo per due stagioni di fila. Carmelo non è un maestro di recitazion­e, non può esserlo, perché il suo è un manierismo puro, non puoi imparare, puoi solo imitarlo».

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