Corriere della Sera - La Lettura
Il manuale che svela il movente
L’analisi Le ricostruzioni dei magistrati puntano il dito sui progetti americani per la guerra psicologica non ortodossa
Quattro mesi dopo la bombamadre di piazza Fontana, nella primavera del 1970, un documento dell’amministrazione Usa, guidata dal presidente Richard Nixon e dal consigliere per la sicurezza Henry Kissinger, ne rivelò la matrice. Nessuna rivendicazione, ovviamente, ma un’indicazione di ciò che bisognava fare per evitare il «pericolo dell’insorgenza comunista» nell’Europa occidentale, che aiuta a capire il mo
vente dell’esplosione. Si tratta del Field Manual 30-31 B-Stability Operations
Intelligence, custodito negli archivi dei servizi segreti ma, soprattutto, trovato 11 anni più tardi, nel 1981, nel doppiofondo di una valigia trasportata dalla figlia di Licio Gelli, insieme al Piano di rinascita
democratica che costituiva il programma della loggia P2.
Il Manuale suggeriva azioni di destabilizzazione, «violente o non violente, a seconda della circostanze», utili a «stabilizzare i governi di Paesi dell’Alleanza atlantica». Dando loro un nome preciso: «Operazioni speciali di stabilità». Oggi la rilettura del documento, insieme a tutto quello che è stato scoperto sulla strage del 12 dicembre 1969 e ciò che ne seguì, consente di stabilire un collegamento tra quell’attentato e le attività segrete degli Usa in Italia. Da piazza Fontana in avanti, fino alla bomba alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980. Passando per Peteano, gli attacchi ai treni, i progetti golpisti, l’attentato alla questura di Milano, Brescia, l’Italicus. Il decennio delle stragi e delle manovre occulte.
L’analisi sulla connection tra gli Stati Uniti e la «strategia della tensione» non è di qualche fanatico accusatore dell’imperialismo nordamericano, bensì di Pietro Calogero, ex pm poi additato come «boia» dalla sinistra più estrema e violenta per le sue inchieste sull’Autonomia operaia padovana e nazionale, ma prima di allora inquirente delle cosiddette «trame nere». Calogero è uno dei coautori di un libro curato dallo storico Angelo Ventrone, L’Italia delle stragi, edito da Donzelli e firmato da 7 magistrati che hanno avuto la ventura di condurre le indagini sugli attentati che segnarono quell’arco di tempo; anni di piombo, ma anche di tritolo, come ricorda il titolo di un altro volume dedicato al terrorismo rosso e nero, di Gianni Oliva. Non è il tentativo di riscrivere la storia nei tribunali o con le sentenze, ma lo sforzo di scomporre e riesaminare il lavoro giudiziario durato decenni e mai concluso (alcune istruttorie sono tuttora aperte, su piazza della Loggia e Bologna), che offre spunti di comprensione ben oltre le condanne o le assoluzioni degli imputati. Anche ripercorrendo gli ostacoli che inquirenti e giudici hanno costantemente incontrato sulla loro strada, proprio per impedire che arrivassero a scoprire scomode verità. Ad esempio seminando ad arte tracce rosse utili a coprire le bombe nere. Ma nonostante i depistaggi, avverte Ventrone nella prefazione, «le inchieste della magistratura si sono spinte molto più avanti di quanto l’opinione pubblica abbia percepito; se non sempre sono riuscite a trovare le
prove definitive per individuare i singoli colpevoli, hanno però individuato con precisione gli ambienti politici da cui la strategia eversiva è nata».
Indagini e processi hanno svelato l’intreccio tra gruppi neofascisti (a partire da Ordine nuovo) e servizi segreti italiani e stranieri, che per conto di alcuni settori delle istituzioni o organizzazioni «di raccordo», come la P2, hanno fatto in modo che nel corso degli anni Settanta l’Italia venisse destabilizzata da attentati e violenze che dovevano servire a stabilizzare il sistema. Rendendolo inaccessibile alla temuta avanzata delle sinistre. Non complotti per organizzare colpi di Stato, insomma, ma azioni che servissero a far temere soluzioni autoritarie e consentissero di mantenere l’ordine costituito dopo Yalta, con l’Italia saldamente schierata sul fronte occidentale della guerra fredda.
La linea statunitense, riassume Calogero, non mirava al golpe («strumento non contemplato nella tipologia delle misure di guerra non ortodossa» studiate per le democrazie occidentali); voleva piuttosto rendere evidenti i rischi delle aperture a sinistra attraverso un’«opera di pressione» che portasse il governo a mantenere ben salda la barra dell’anticomunismo: «Una strategia in sé antigolpista, che poteva utilizzare il golpe, com’era avvenuto per il piano Solo, esclusivamente come strumento di minaccia per fare pressione su governo, partiti e vertici istituzionali al fine di conseguire l’obiettivo (in quel caso effettivamente conseguito) della stabilizzazione al centro del sistema politico».
A questo scopo la Cia e gli altri apparati statunitensi si sono serviti di segmenti dei servizi segreti e delle Forze armate, ma anche dei gruppi neofascisti che invece miravano a rovesciare l’ordine democratico. È persino verosimile che gli abbiano fatto credere di appoggiarli, in un’ipotetica versione tricolore delle ricette applicate in America Latina, senza che fosse vero. Non serviva il golpe, bastava la paura. Ed è credibile che nel 1974 sia stato deciso un cambio di passo: un drastico stop alle trame nere dopo le stragi di Brescia e dell’Italicus, lasciando campo libero ai rischi indotti dalla sovversione rossa. Il generale Vito Miceli, ex capo del Sid, lo spiegò al giudice istruttore Giovanni Tamburino (altro coautore) che lo aveva inquisito: «D’ora in poi non sentirete più parlare del terrorismo di destra, ma soltanto degli altri». Andò esattamente così. Della destra eversiva, in realtà, si continuò a parlare soprattutto per protezioni e inquinamenti nei processi per le stragi. A cominciare, ancora, da piazza Fontana, seguendo sempre lo stesso canovaccio; anche per gli attentati dove le vittime furono uomini delle istituzioni e i colpevoli si sono autoaccusati, come Peteano (31 maggio 1972: tre carabinieri morti e due feriti).
Resta esemplare, in tema di depistaggi, la ripulitura del rapporto del Sid sul golpe Borghese che, «con l’autorevole avallo del ministro della Difesa Giulio Andreotti», prima di essere trasmesso alla magistratura venne sfrondato dei «dati non riscontrabili»; sparirono così il nome di Gelli, nonché i riferimenti «agli abituali contatti con il capo dell’ufficio Affari riservati Federico Umberto D’Amato» di Stefano Delle Chiaie, uno dei capi del neofascismo militante e di apparato, recentemente scomparso.
La parabola si chiude con la strage alla stazione di Bologna (1980), fatta rientrare nella stessa strategia grazie alle condanne ai neo-neofascisti dei Nar. Tre verdetti di colpevolezza (e un processo in corso per un quarto imputato dello stesso gruppo) sopravvissuti alle assoluzioni dei mandanti e degli anelli intermedi della catena, che nell’impostazione originaria risalivano ancora una volta alla P2 e agli estremisti neri della generazione precedente. Tuttavia proprio l’analisi così accurata delle vicende precedenti lascia un dubbio — probabilmente non coltivato dai magistrati autori, ma apparentemente legittimo — sulla reale responsabilità di un pugno di ex ragazzini ventenni, rei confessi di altri efferati delitti, per l’eccidio più atroce consumato nell’Italia repubblicana.