Corriere della Sera - La Lettura
Orfani della bomba Voci della memoria
Parlano Carlo Arnoldi, Paolo Dendena e Paolo Silva. Tutti e tre hanno perso il padre nell’eccidio di piazza Fontana e adesso animano l’Associazione dei familiari delle vittime. «Riviviamo di continuo quei giorni terribili, le prime notizie, l’orrore dell’obitorio, i funerali in Duomo. Andiamo a parlare nelle scuole: l’interesse dei ragazzi ci aiuta a credere nella giustizia»
Iloro orologi hanno segnato centinaia di migliaia di ore, milioni di minuti e oltre un miliardo e mezzo di secondi. Per mezzo secolo le pagine dei loro calendari sono state sbarrate, strappate, accartocciate. La vita ha continuato a fluire, sono successe cose, ci sono state feste, giornate buie, sono nati bambini, alcuni sono diventati adulti. Ma per milioni di volte — anche nella stessa giornata, anche nello stesso pomeriggio, anche nella stessa notte senza sonno e senza sogni — orologi e calendari sono tornati lì, alle 16.37 del 12 dicembre 1969. Un continuo pendolo del tempo e delle emozioni sofferte e mancate, il ricordo straziante della perdita del padre e il rimpianto per gli anni non vissuti insieme, un’incessante altalena imperniata sull’istante di un dolore che attraversa tante vite. Oltre alla scia di morte e sgomento, la bomba fascista di piazza Fontana ha lasciato un’eredità di vedove, orfani, fratelli. E di nipoti che di quei tempi hanno soltanto immagini in bianco e nero, racconti e qualche lettura.
Anche se vivono le loro vite, da quel cratere al centro del salone della Banca nazionale dell’agricoltura i familiari delle vittime non possono mai allontanarsi per più di qualche ora. Non passa un giorno intero senza che la mente — e se va male anche il cuore — ritorni esattamente lì. O forse, ed è pure peggio, a qualche minuto o qualche ora prima: se non fosse andato, se avesse trovato traffico, se la mamma avesse insistito, se anche fosse caduto rovinosamente prima di arrivare in banca, all’appuntamento con quella morte all’ombra dello Stato.
A cinquant’anni dall’esplosione che ancora dilania sentimenti e condiziona pensieri, anche i loro racconti continuano a oscillare nel tempo: ora siamo sul sagrato del Duomo per i funerali, un attimo dopo al comizio per il quarantennale della strage. Un attimo prima siamo alla Cassazione, ma basta deviare per un attimo con un inciso e ci si ritrova sul treno che viaggia — lentissimo — da Milano a Catanzaro.
Carlo Arnoldi, Paolo Dendena e Paolo Silva sono l’anima dell’Associazione dei familiari delle vittime di piazza Fontana. Tutti e tre, mezzo secolo fa, hanno perso il papà: si chiamavano, rispettivamente Giovanni Arnoldi, Pietro Dendena e Carlo Silva. «Un padre è il punto di riferimento, la guida, il faro», tengono a ricordare in una conversazione polifonica, in cui voci, ricordi e giudizi si accavallano, si sovrappongono, si interrompono a vicenda e ogni tanto si contestano persino. Perché Arnoldi, Dendena, Silva, e altri come loro, sono figli della strage che ha segnato la storia della Repubblica, trasfigurandone il volto conosciuto fino ad allora. «È successo qualcosa in banca», è il primo ricordo in ordine cronologico. Paolo Dendena rievoca il messaggio di allarme, la corsa all’ospedale Fatebenefratelli dove proprio lui ha visto che su una barella, con un lenzuolo bianco che copriva una salma, era stato appoggiato un abito principe di Galles. Era quello che suo padre Pietro indossava quel giorno. Lui aveva dieci anni. Carlo Arnoldi, invece, ne aveva quindici. Quel pomeriggio partì da Magherno, un paesino in provincia di Pavia, insieme alla mamma e alla sorellina di otto anni, per andare all’obitorio. «Io non potevo entrare per il riconoscimento, ma nella confusione mi intrufolai insieme a due mie zie, e…». Fa una piccola pausa quasi per preparare l’interlocutore, per