Corriere della Sera - La Lettura
L’assassino siamo noi
È intrattenimento, certo; è attraente, non c’è dubbio; è consolatorio, anche, perché riporta ordine nel caos. Ma il thriller — o giallo, o noir, o crime fiction — è molto di più. È uno strumento straordinario per raccontare (e comprendere) la realtà. Questa realtà. Non più quella degli assassini mostruosi; ma quella degli assassini che abitano nelle nostre case, vicino a noi, accanto a noi. «La Lettura» ha invitato a parlarne Fiona Barton, Michael Connelly, Maurizio de Giovanni, David Lagercrantz e Carlo Lucarelli
Voi che avete inventato assassini formidabili, voi che avete architettato (e risolto) casi entrati nell’immaginario del pubblico occidentale, voi che (tutti insieme) avete venduto circa settanta milioni di copie nel mondo; ecco, proprio a voi, riuniti oggi intorno a un tavolo, chiediamo di svelare l’insondabile mistero del vostro mestiere: il romanzo «crime» è una creatura che gode di salute strabiliante, che viaggia e si trasforma da quasi due secoli su una parabola in perenne stato di grazia... qual è il segreto?
DAVID LAGERCRANTZ — La sua potenza. MICHAEL CONNELLY — La qualità degli autori e la forza consolatoria. CARLO LUCARELLI — La continua sperimentazione. FIONA BARTON — L’apertura oltre le categorie tipiche del genere letterario. MAURIZIO DE GIOVANNI— La storia, sempre.
E poi preparazione, profondità introspettiva, stile, mestiere, curiosità, attenzione ai cambiamenti della società, sensibilità politica. «La Lettura» ha riunito intorno a un tavolo cinque maestri mondiali della crime fic
tion. L’americano re del thriller (collegato da Los Angeles), lo svedese che ha ridato vita a Lisbeth Salander (ospite in via Solferino), l’autrice capace di scavare nell’anima del colpevole (al telefono dal Sussex, Inghilterra), due grandi eredi di Andrea Camilleri (de Giovanni al «Corriere» e Lucarelli via cavo da Bologna). Scrittori che nella postmodernità delle forme galleggiano sui concetti fluidi del noir e del poliziesco, conservano e rinnovano, recuperano e sperimentano. E provano a spingere l’occhio un po’ più in là sulle ossessioni di sempre: invidia, gelosia, sete di potere, desiderio, avidità, crudeltà, violenza. Scrittori che continuano a mettere in scena vicende (all’apparenza) più ingarbugliate delle nostre vite. E sempre accarezzano quel fascino primigenio della passione per il crimine: rivelare l’assassino, che non è più, o non solo, il mostro, ma il vicino di casa, il ragazzo che ci parcheggia accanto, la madre di famiglia, il collega. L’assassino che è in noi, dicono. «Ognuno di noi».
Mai come oggi il romanzo «crime», giallo, «hardboiled», con tutte le sue declinazioni, è il più amato e venduto. Un’escalation continua. È la passione dei lettori per il crimine che aumenta o il noir stesso è cresciuto come strumento letterario?
MICHAEL CONNELLY — Non posso parlare a nome di tutti gli scrittori, e quelli che conosco sono in genere persone alquanto umili. Tuttavia, alcuni hanno un ego piuttosto sviluppato, vogliono che le loro storie siano lette il più possibile. Dunque, vedendo che la crime fiction è il genere letterario che attira il maggior numero di lettori, anche loro si dirigono in questa direzione. Sanno che non si tratta più di semplice intrattenimento, ma di uno strumento in grado di raccontare la società e riflettere sul mondo in cui viviamo. Il risultato è dunque eccezionale: da una parte il genere attrae gli scrittori migliori, dall’altra conquista nuovi lettori. Ecco perché gode di ottima salute, basta vedere le classifiche.
Allora la tendenza qual è: il noir si affranca dalla sua anima commerciale o la consolida?
CARLO LUCARELLI — È un ottimo momento proprio perché il genere può permettersi di fare due cose: da una parte, offrire al pubblico — legittimamente — libri puramente commerciali che servono soltanto per svagarsi e divertirsi per qualche ora; dall’altra, spaziare in altri campi. Del resto noi siamo obbligati, perché dobbiamo sempre colpire e stupire il lettore, a sperimentare nuovi modi di raccontare, nuovi stili, a usare parole nuove, a montare insieme tempi diversi. Poi siccome raccontiamo la parte più nascosta, la metà oscura della società e dell’animo umano, se vogliamo fare bene il nostro lavoro siamo costretti a scavare sempre più in profondità. E quindi a denunciare, a essere sperimentali e contemporaneamente politici.
FIONA BARTON — A proposito di salti temporali: conoscete il romanzo Le sette morti di Evelyn Hardcastle di Stuart Turton (edito in Italia da Neri Pozza, ndr)? È un noir assolutamente straordinario che si svolge in anni diversi. Questo per dire che davvero stiamo vivendo l’età dell’oro del genere crime, è come una pianta che sta fiorendo e germogliando. Mi considero molto fortunata, faccio la scrittrice in un momento storico in cui stanno accadendo tante cose intorno a questa forma letteraria: è un periodo di grande forza creativa.
Non si rischia l’inflazione?
DAVID LAGERCRANTZ — In effetti il genere è in grande forma, forse anche troppa, è come un virus che si sta diffondendo ovunque, lo diceva prima Michael Connelly, basta guardare le classifiche dei libri o le serie televisive per rendersene conto. E al momento è possibile fare tutto, anche una crime fiction senza crime, senza reato: può essere sufficiente anche solo la minaccia del reato. E si può scrivere usando una chiave politica, di denuncia, come accade spesso nel romanzo svedese, oppure raccontare storie assolutamente realistiche che avvengono all’interno delle mura di casa, in famiglia. Ma la cosa straordinaria del romanzo nero è la potenza del suo richiamo, è come un riflettore che illumina la realtà, la svela con i suoi dettagli da brivido. Per questo ci affascina. Per esempio se ora picchio i pugni sul tavolo ( lo fa veramente e tutti sobbalzano, compresi gli interlocutori collegati al telefono) io attiro la vostra attenzione e vi rendo più disponibili all’ascolto e a quel punto posso darvi alcune informazioni: «Sono un autore di 57 anni che scrive da 27 anni». Il noir contemporaneo fa così, accende le luci su aspetti della società che spesso non vediamo, a partire dalle ingiustizie.
Ma non era la narrativa «nobile» ad avere lo sguardo più profondo sulla realtà?
MAURIZIO DE GIOVANNI — Immaginate di camminare sul corso principale di una città: la strada, i negozi, la gente. Per terra ci sono i tombini e tutti sappiamo che sotto quei tombini c’è qualcosa, un mondo. Noi scrittori di noir siamo quelli che raccontano cosa c’è sotto quei tombini. Sveliamo qualcosa che interessa tutti, che tutti sanno che esiste e che nessuno andrebbe a visitare, nonostante la curiosità che la città sotterranea suscita. Del resto il crimine è sempre stato la chiave di interpretazione di quello che si nasconde sotto la superficie. Noi apriamo una porta: facciamo vedere una parte della natura umana e del mondo che tutti sappiamo che esiste, ma che nessuno sa bene cosa sia. Questa è la nostra «offerta». Raccontiamo storie. E siamo obbligati a farlo. Il romanzo letterario no, può anche non farlo, può raccontare il percorso intimo di un singolo personaggio. Noi invece siamo consequenziali, la storia è il veicolo per essere capiti da qualsiasi lettore. Questo è il motivo della popolarità del nostro genere e del suo permanente successo. Che c’è sempre stato, soltanto che adesso siamo disposti ad ammetterlo.
Voi scrivete di assassini spietati, di violenza, di morte. Il male attrae oppure intrattiene?
MICHAEL CONNELLY — Entrambe le cose. E poi ci sono tanti altri aspetti: tutte le volte che viene individuato il segreto del successo di questo genere ne vengono trovati altri, viviamo in un mondo che propone nuove forme di racconto a getto continuo. Eppure c’è qualcosa di tipico in questi romanzi, di peculiare.
Che cosa?
MICHAEL CONNELLY — Hanno tutti qualcosa di consolatorio: partono da una situazione di caos che viene riportata all’ordine. Questo processo di rimettere le cose al loro posto fa bene ai lettori, li fa stare bene. CARLO LUCARELLI — ( In sottofondo si sente una vo
ce infantile che richiama l’attenzione del padre-scrittore). Scusate, perché il noir è il noir, ma poi arrivano i bambini... ( Lagercrantz scoppia a ridere). Dicevo... Allora, il male ovviamente attrae; noi lo sappiamo e lo rendiamo ancora più attraente. Però io credo che la differenza la faccia l’uso del male. Un esempio: quando siamo in autostrada e c’è un incidente nell’altra corsia, è naturale che voltiamo lo sguardo per guardare. È umano. Ci giriamo per vedere cos’è successo, se è morto qualcuno. Poi tutto dipende: se questa cosa dura due secondi e subito dopo pensiamo che dobbiamo controllare i freni della macchina, questo è un buon uso della paura, dell’orrore, di tutte quelle cose che ci attraggono. Se invece tamponiamo l’auto davanti perché continuiamo a guardare l’incidente nell’altra corsia, questo è un cattivo uso dell’orrore. Ed è vero che la risoluzione dei casi è terapeutica, ma non necessariamente riparatrice, visto che in molte storie che scriviamo e leggiamo le cose vanno male. A volte mettiamo in galera assassini che sono gli ultimi a meritarselo, mentre la politica, il potere, sono ancora lì a schiacciarci. Ma ripeto: se qualcuno torna a casa e dice «devo controllare i freni», forse abbiamo fatto un buon servizio con il nostro libro.
La terapia del male?
DAVID LAGERCRANTZ — È paradossale: noi amiamo leggere cose che non vogliamo ci capitino. Nella vita reale ci piace stare al sicuro, tranquilli a casa, e leggere con un bicchiere di vino in mano storie di assassini e di morte. Credo che sia una forma di fuga e anche di terapia, perché nella vita vera facciamo esperienza di traumi, di morti, di tragedie che non sempre possono essere spiegati, spesso la violenza è priva di senso, mentre il romanzo noir dà una spiegazione. Più di tutto, però, c’è l’enigma. Che noi adoriamo e che suscita, credo, un fascino superiore a quello della risposta.
FIONA BARTON — Non penso e non spero che sia l’attrazione per la brutalità estrema a spingere i lettori a leggere i romanzi noir. Credo sia molto di più, e cioè l’opportunità di esplorare e capire perché certe persone commettano gesti terribili. In modo particolare questo è possibile nella declinazione attuale del genere, e cioè nel noir domestico e psicologico, in cui il protagonista non è sempre — non è più — il serial killer, e i personaggi sono più simili a noi: oggi le nostre storie si sviluppano dietro a porte chiuse, magari nella casa di fronte, nella strada accanto alla nostra. Scopriamo che proprio lì il vicino ha commesso atti di estrema violenza. Da parte dei lettori c’è l’interesse a capire come una persona comune, che frequenta i nostri stessi negozi e salutiamo all’incrocio, possa rivelarsi un assassino.
È un approccio «guardone», voyeuristico?
FIONA BARTON — Realistico. Credo che oggi il fascino del noir consista in questo: immaginare che un mostro possa vivere vicino a noi, addirittura insieme a noi. Avverto nei lettori il bisogno di capire perché accadono certe cose. E in questo la crime fiction è perfetta, una piattaforma ideale per esplorare la realtà. Sono d’accordo con Connelly quando parla di traghettare il lettore dal caos all’ordine. È un elemento importante della
crime fiction, così diversa dalle nostre vite in cui di cose pulite, semplici, chiare ce ne sono davvero poche.
MAURIZIO DE GIOVANNI — Un paio d’anni fa un ottantaduenne in provincia di Caserta prende l’ascia dal magazzino e fa a pezzi la moglie con cui ha da poco festeggiato 50 anni di matrimonio. Poi si siede in cucina e aspetta l’arrivo della polizia. La cronaca racconta l’evento, l’attività giudiziaria è velocissima, il colpevole è evidente. Tutto chiaro. Ma io voglio sapere perché l’ha fatto. E la narrazione del perché può avvenire soltanto raccontando una storia. Questo noi scrittori facciamo. Svolgiamo la fondamentale funzione di svelare le ragioni di certe cose che accadono e che sono altrimenti inspiegabili. Carlo ha ragione, e Fiona pure: l’attrazione per questo tipo di storie non è una pruriginosa attenzione — attrazione — per il male. Il male assoluto non esiste, esistono eventi che avvengono per un qualche motivo. Bisogna chiedersi quando è cominciato quell’omicidio, se la sera prima, o dieci anni prima; una morte così non è uno scoppio di rabbia, è la sedimentazione di una serie di ragioni. A me interessa questo, e di questo scrivo: il reperimento delle ragioni.
Le donne nel romanzo noir. Da assistenti e vittime e mogli sono diventate sempre più centrali: Renée Ballard, la poliziotta di Connelly, la giornalista Kate Waters di Fiona Barton, l’assistente sociale Mina Settembre inventata da Maurizio de Giovanni. Avere protagoniste donne nei vostri romanzi è una necessità, una conseguenza del movimento #metoo o semplicemente le donne sono più interessanti?
MICHAEL CONNELLY — Tutte queste cose insieme. Per quanto mi riguarda, da tre anni ho inserito una protagonista donna, Renée Ballard, la cui personalità è ispirata da una detective con cui ho svolto alcune ricerche e che si è resa disponibile a lavorare insieme a me (si tratta della detective del Los Angeles Police Department, Mitzi Roberts, a cui è dedicato il nuovo libro di Connelly,
La notte più lunga, Piemme, ndr). Penso però che le scelte degli scrittori dipendano più dalle opportunità che si presentano, che dagli equilibri di genere. Non inserisco quel tipo personaggio per un calcolo preciso. La verità è che mi piacciono caratteri forti, orgogliosi, fieri, con cui trascorrere il tempo nella fase di scrittura a prescindere dal loro genere. E questo è il meccanismo che ha dato vita a Renée Ballard.
MAURIZIO DE GIOVANNI — Nei nostri romanzi ci sono più donne che in passato per due ragioni molto ba
Dobbiamo sperimentare e dobbiamo denunciare. Per questa ragione siamo anche scrittori politici
nali. La prima è che narriamo di passioni e sentimenti. Ed è impossibile farlo prescindendo dalla figura femminile. La seconda è che il nostro genere letterario è necessariamente legato alla realtà contemporanea, nella quale le donne hanno un ruolo non solo paritetico, ma tendente alla primarietà rispetto ai maschi. Quindi credo che non sia altro: il noir assolve l’obbligo di guardare alla realtà esattamente come la realtà è.
DAVID LAGERCRANTZ — Pensate a me... Il mio personaggio femminile l’ho ereditato. Lisbeth Salander, un’icona della letteratura, una figura che credo abbia portato davvero un cambiamento nella crime fiction: primo perché non vuole essere una vittima, poi perché non vuole compiacere gli uomini, altro aspetto che caratterizzava i ruoli femminili della tradizione, con quelle ragazze che avevano sempre bisogno di un eroe che venisse a salvarle. Adesso sono loro le eroine.
Finalmente...
DAVID LAGERCRANTZ — Oggi ritengo più importante che mai mettere in evidenza questi personaggi femminili forti perché nel nostro mondo ci sono uomini narcisi e potenti — uno per esempio siede sulla poltrona di presidente nel Paese di Michael Connelly, ma li abbiamo anche qui in Europa — che non sono amici delle donne. Credo che nella fiction e nella vita vera sia arrivato il momento del girl power.
CARLO LUCARELLI — Ho inserito la mia prima protagonista «in tempi non sospetti», era il 1997 e di certe cose purtroppo non si parlava ancora. «Lei» era Grazia Negro, detective di Almost Blue, già comparsa — ma come spalla — in Lupo mannaro del 1994 (entrambi i romanzi pubblicati da Einaudi Stile libero, ndr). L’ho fatto per due motivi. Uno perché all’epoca era ancora abbastanza strano, colpiva l’immaginazione vedere donne in ruoli operativi importanti nella polizia. Quindi, da una parte, era interessante confrontarsi con una protagonista piena di problemi, per esempio essere donna in un mestiere da uomini. In più volevo qualcuno molto diverso da me. Adesso no, adesso non è più così. Oddio, i passi da fare sono ancora tantissimi, ma sarebbe impossibile scrivere un romanzo poliziesco realistico senza imbatterci in un poliziotto donna, in un magistrato donna, in un avvocato donna, in un assassino donna. Le storie «nere» di oggi sono molto «al femminile» perché questo è un modo quotidiano, normale, importante, interessante di raccontare la realtà.
Il suo parere da donna, Fiona Barton?
FIONA BARTON — Le donne nei romanzi noir non sono più i cadaveri o le segretarie. Ne sono felice. Ma non è solo questo. Il vero cambiamento è un altro: finalmente i personaggi femminili principali non sono più obbligatoriamente piacevoli, attraenti. Sono donne con i loro lati oscuri. E i lettori hanno imparato ad apprezzarle. Faccio l’esempio della Ragazza del treno di Paula Hawkins (pubblicato in Italia da Piemme, ndr): il personaggio principale, Rachel, è piuttosto sgradevole, eppure il lettore si affeziona a lei e vuole scoprire che cosa le è successo. Questa è un’evoluzione importante dei personaggi femminili, che non sono più o bianchi o neri, ma hanno molte più sfumature rispetto a una volta. In passato, una donna troppo forte oppure sgradevole o era l’assassina oppure usciva di scena rapidamente. Ora, invece, abbiamo un ritratto molto più realistico delle donne nel noir. È successo da qualche tempo, sottotraccia, prima del #metoo, e vedo che molte autrici sono contente di poter scrivere di personaggi principali che appartengono al loro stesso genere.
Chi è l’assassino oggi?
DAVID LAGERCRANTZ — Non io!
MAURIZIO DE GIOVANNI — L’assassino è chi porta alle estreme conseguenze lo stesso sentimento che proviamo noi. Invidia, gelosia, ossessione, paura, rabbia, voglia di potere, fame, disperazione. Tutte queste cose noi le proviamo, ma a un certo punto ci fermiamo. Qualcun altro scavalca l’ostacolo e va avanti. È il motivo per cui noi lo comprendiamo perfettamente, perché non è altro che lo stesso identico pentagramma su cui noi scriviamo la nostra sinfonia quotidiana.
MICHAEL CONNELLY — L’assassino è cambiato, di fatto credo possa essere chiunque perché, come hanno detto gli altri autori di questo tavolo, il genere è completamente aperto e puoi fare quello che vuoi ed esplorare in tutte le direzioni. Quindi l’assassino può essere in qualsiasi luogo, in qualsiasi angolo, in qualsiasi città, grande o piccola. DAVID LAGERCRANTZ — Mi viene in mente Lord Jim di Joseph Conrad, quando Marlow, voce narrante in gran parte del romanzo, dice di Jim: «È uno di noi, one of us ». E questo è un tipo di assassino, uno di cui pensiamo: «Quel delitto avremmo potuto commetterlo anche noi». Poi ne esiste un altro, ed è — per tornare alla tradizione del genere — il mostro.
Da pensionare?
DAVID LAGERCRANTZ — Non è detto. Ma credo che oggi sia importante rendere più complesso e interessante il mostro, andando a trovare quello che c’è di buono in lui e quello che c’è di mostruoso nelle persone buone. Mi auguro che i mostri della crime fiction diventino sempre più interessanti: in questo modo avremo migliori assassini, migliori eroi, migliori vittime. E migliori romanzi.
FIONA BARTON — Il bello delle nostre storie è che davvero l’assassino può essere chiunque. Un bambino, un anziano, un padre o una madre, un prete, una suora... è questo che ci consente di esplorare le tematiche contemporanee alle quali facevamo riferimento prima. Ho fatto la giornalista per tanti anni e i mostri li vedevo in tribunale: nessuno di loro aveva l’aspetto del mostro come ce lo immaginiamo, potevano essere una qualsiasi persona seduta sull’autobus di fianco a noi. Noi vorremmo, ci aspetteremmo, che i mostri avessero un aspetto cattivo e incarnassero il male. In realtà non è così. Ed è questo che rende il genere crime così interessante e spaventoso. CARLO LUCARELLI — Gli assassini sono di due tipi. Uno si è trasformato nel tempo: il mostro, il serial killer, il poliziotto corrotto, il marito geloso. Tutti questi caratteri cambiavano a seconda delle sensibilità degli autori, ma anche dei momenti storici. Quel tipo di assassino di
L’assassino è cambiato. Il mostro è cambiato. Oggi è interessante scovare quello che c’è di buono in lui e quello che c’è di mostruoso nelle persone buone. Perché è vero: i mostri siamo diventati noi
norma noi scrittori siamo riusciti a prenderlo, io i miei li ho presi tutti, a un certo punto le manette intorno ai loro polsi le ho messe. Poi c’è un altro tipo di assassino, che è sempre stato lo stesso dai tempi di Caino e Abele, ed è quello che sta dietro: il potere, il motore che ha creato quella determinata situazione. E quello, francamente, io non sono mai riuscito a prenderlo.
Il 17 luglio è scomparso Andrea Camilleri, che ha creato una forma di «crime etnico». Cosa c’è di locale e globale nella vostra scrittura?
MAURIZIO DE GIOVANNI — Il romanzo è un viaggio. L’autore deve portare il lettore da qualche parte e deve portarlo il prima possibile, i romanzi belli sono quelli che già a pagina due ti hanno traghettato in un altro posto. E per andare in un altro posto devi sentire il clima, il freddo, il caldo, la pioggia; devi sentire gli odori, i sapori; devi sentire il linguaggio. Questo vale per tutti i romanzi, ma per il romanzo nero ancora di più, perché ti deve connettere immediatamente a una realtà che non è la tua. La grande intuizione di Andrea Camilleri, che ha portato poi alla geografia del romanzo nero italiano, addirittura diversificata di regione in regione, è stata quella di tornare, attraverso la lingua, all’oralità del racconto. Questo è quanto di più coinvolgente si possa immaginare. L’eredità di Camilleri è tutta qui, ed è immensa: avere connesso il romanzo nero alla terra.
MICHAEL CONNELLY — Una buona crime novel deve essere global e local nello stesso tempo. In fondo viviamo in un piccolo mondo e le connessioni che si creano nei nostri quartieri sono le stesse che ci mettono in relazione con altre parti della Terra. È così che le buone storie diventano globali. Credo che gli oceani e i confini possano essere superati con facilità: a noi scrittori non resta che metterci al lavoro e scrivere di una piccola porzione di mondo che però sia connessa con tante persone in varie parti del pianeta.
Storie minime? Un minimalismo noir?
MICHAEL CONNELLY — Le buone storie sono fatte di personaggi che cercano soluzioni, anche ai problemi quotidiani. Prendiamo la burocrazia. Chi di noi non ha avuto a che fare con la burocrazia? È la vita. E nei nostri romanzi i protagonisti sono contemporaneamente chiamati a risolvere un «caso» e ad affrontare i problemi di tutti i giorni, e questo sicuramente ha un richiamo globale. Ho letto tanti anni fa Almost Blue di Carlo Lucarelli, ambientato in una città che non conoscevo, in cui non ero mai stato (Bologna, ndr), con protagonista un non vedente. Io non sapevo nulla dell’ambientazione, eppure la trama lo rendeva un romanzo globale.
CARLO LUCARELLI — Grazie a Michael Connelly per la citazione, mi sono emozionato. E sì, è vero, noi scrittori di noir siamo molto locali, legati alla nostra geografia, soprattutto noi italiani che abbiamo addirittura suddivisioni regionali. Il motivo: noi siamo quelli che nominano le strade. Raccontiamo storie talmente incredibili che se non ci fossero agganci con la realtà la gente non ci crederebbe. Non potresti pensare che uno scimmione ha ammazzato due persone infilandone una nella cappa del camino se questo non fosse accaduto nella rue Morgue, come nel racconto di Edgar Allan Poe.
Bastasse il nome di una strada: non tutti sono Edgar Allan Poe...
CARLO LUCARELLI — Per perderti dentro una città devi conoscerne alla perfezione gli angoli, anche quelli più nascosti. E non è facile raccontarli a chi quegli angoli non li ha mai visti. Ma dobbiamo farlo, e bene: quei luoghi — piccoli, pittoreschi, oscuri — devono parlare a tutti con meccanismi globali. Molte volte introduciamo una parolina in dialetto e ci sembra di avere risolto una scena, una descrizione. Ma quella parola deve suonare una musica che sia una musica per tutti e Andrea Camilleri è stato bravissimo nel fare questo: si è inventato un dialetto che funziona da qualunque parte perché non importa conoscere il significato della parola, la sua è una musica che suona benissimo.
DAVID LAGERCRANTZ — Forse uno scrittore con poca esperienza immagina, volendo descrivere un personaggio globale, di dover viaggiare incessantemente. Ma il paradosso è proprio questo, che il locale è globale. Quindi sono d’accordo: noi scrittori dobbiamo metterci al lavoro per trovare le parole giuste che tocchino le corde giuste di persone che sono esattamente come noi in luoghi assolutamente estranei a noi. Il locale è la nostra vita ed è proprio in questo ambito che dobbiamo scavare. FIONA BARTON — Prendiamo Agatha Christie. L’autrice ambienta molti suoi gialli nell’Inghilterra rurale. Nonostante questo, affronta temi che risultano interessanti per i lettori di tutto il mondo: questioni di genere, amore, soldi, corruzione, gelosia. Tutto accade in questi piccoli villaggi. È una caratteristica che mi piace moltissimo: saper dare un’idea precisa di dove questi delitti avvengono. Sono storie in cui i luoghi non si limitano a essere un’ambientazione, ma diventano personaggi che rendono l’atmosfera. Non sempre io l’ho fatto, il mio ultimo romanzo ( Il sospetto, Einaudi Stile libero, ndr) è ambientato in parte a Bangkok. Ma ho le idee chiare sul prossimo: l’ambientazione sarà protagonista.
Sesso, sangue, soldi. Sono le tre S di una spesso abusata strategia di attrazione. In che misura convivono questi tre elementi nel vostro lavoro?
MICHAEL CONNELLY — Non lo so, non ci ho mai ri
flettuto. Sì, qualche volta il sesso c’è, ma nella maggior parte dei casi no, ho un libro in uscita (il 22 ottobre sarà nelle librerie americane The Night Fire, il secondo volume con la coppia investigativa Bosch e Ballard, ndr) in cui compare l’aspetto economico, ma la mia scrittura non fa molto caso a questi elementi.
Però il sangue...
DAVID LAGERCRANTZ — Dopo Il silenzio degli innocenti, abbiamo assistito a un’inflazione di sangue e forse sì, ha un po’ stancato. Le sue quotazioni sono in calo e anch’io ne verso il meno possibile. Il sesso? È ovunque nella rete. E scrivere scene di sesso è molto difficile. Quindi insomma, anche qui le percentuali sono basse. Invece per il soldi... Ne scrivo sicuramente di più ( sorride). Anche se il sesso è più divertente.
FIONA BARTON — Non amo il sangue. Non ne faccio molto uso, non mi piace la violenza esplicita. Il sesso ha le sue difficoltà... Ci sono pochissime scene erotiche nei miei libri, ma sono molto buone. Credo che in generale la nostra attenzione si stia dirigendo verso altro nella crime fiction, il che è un bene. Questa visione tripartita tra sesso, sangue e soldi è un po’ datata; oggi noi autori di noir siamo più interessati ai segreti, ai matrimoni con una persona che scopriamo di non conoscere, insomma adottiamo un modo meno grafico e forse più insidioso di raccontare la realtà.
Quindi nella «crime fiction» sono spariti sangue e sesso?
CARLO LUCARELLI — No no, io ho anche le percentuali: 50, 50, 50. Lo so che non fa 100, però nel noir le cose non sono mai come sembrano ( David Lagercrantz applaude: «Oh questa sì che è una buona risposta» ).
MAURIZIO DE GIOVANNI — Ovviamente le dosi di questi ingredienti variano a seconda del romanzo. Nel legal thriller i soldi sono più importanti, se c’è un serial killer conta di più il sangue. Ma io aggiungerei una quarta «S» che sta sopra a tutto: il sentimento, motore assoluto delle nostre storie. Sentimenti normali e inizialmente positivi come l’amore e l’amicizia possono corrompersi fino alle estreme conseguenze. Da qui parte tutto.
Chi sono i vostri maestri letterari, quelli che vi hanno ispirato nel vostro lavoro?
MICHAEL CONNELLY — Raymond Chandler. Sono stato un suo lettore famelico da ragazzo: leggendo
Chandler si è accesa in me la scintilla che mi ha fatto capire che non volevo solo leggere, ma fare come lui e inventare le mie storie. Quindi sì, è Chandler che mi ha portato a percorrere questa strada e anche a unirmi a questo tavolo. CARLO LUCARELLI — Ce ne sarebbero tanti di maestri. Anche molti colleghi con cui scambio idee, cercando perfino di rubare le migliori. Ma quello che mi ha cambiato la vita è Giorgio Scerbanenco. Tutto è cominciato da lì.
DAVID LAGERCRANTZ — Credo che uno scrittore abbia molti maestri. Io purtroppo sono stato cresciuto in un modo terribile, in una famiglia in cui non ci era permesso leggere la crime fiction. Però se penso a Jorge Luis Borges... Era cieco e ha esplorato tutti i generi letterari. Mi inchino al suo cospetto. Ricordo anche di aver letto Il nome della rosa di Umberto Eco e di avere pensato — lo penso ancora oggi — : quando sarò grande mi piacerebbe scrivere qualcosa di simile. Anche di poco.
FIONA BARTON — Agatha Christie: mia madre aveva tutti i libri, mi piacevano i suoi stratagemmi e i colpi di scena. Arthur Conan Doyle con il suo Sherlock, così astuto. Ma credo che l’autore che mi ha fatto scattare qualcosa in più sia stata Daphne du Maurier con il suo
Rebecca (in Italia Rebecca. La prima moglie), che mi ha fatto capire che non possiamo mai conoscere del tutto qualcuno, soprattutto le persone che amiamo. Rebecca è un thriller fantastico, mozzafiato; ancora oggi torno a sfogliarne alcune parti per il puro piacere della lettura.
MAURIZIO DE GIOVANNI — Ho un mio personale podio. Alexandre Dumas padre perché è il primo che con Il
conte di Montecristo rende eroico un sentimento negativo. È rivoluzionario. Poi Fëdor Dostoevskij perché per la prima volta inverte gli schemi e ragiona da assassino. Infine Ed McBain, che con la sua Serie dell’87° Distretto è per me il più grande autore di crime: tutti i 55 romanzi di questa serie sono capolavori, io mi sono ispirato a lui per i miei «Bastardi». Ah, certo: non ho menzionato Andrea Camilleri perché è stato ampiamente citato in questo nostro incontro.
Una domanda specifica per ciascuno. Michael Connelly, funzionano di più le coppie di investigatori rispetto al lupo solitario?
MICHAEL CONNELLY — Sì, me ne sto rendendo con
Una volta le
regole erano sangue, soldi e sesso. E oggi? 50, 50 e 50. Non fa cento ma nel noir le cose non sono mai come sembrano
to ora: avanti nella carriera ( ride) ho messo insieme questa squadra (Harry Bosch e Renée Ballard) che mi sembra funzioni, perché sono due persone che imparano a fidarsi una dell’altra. È inoltre interessante avere due protagonisti anche nella struttura della trama: consentono di spezzare la narrazione con due punti di vista diversi. È una tecnica che ho usato negli ultimi due libri e penso che continuerò a farlo perché mi piace molto.
David Lagercrantz, perché ha chiuso la saga Millennium al sesto capitolo? Non dovevano essere dieci, almeno nelle intenzioni di Stieg Larsson?
DAVID LAGERCRANTZ — Perché il mio cuore di reporter guarda da un’altra altra parte. Io rispetto i lavori seriali, ammiro gli autori che scrivono anche venti libri con lo stesso personaggio. Ma per me non è possibile, la mia natura nevrotica non me lo consente, mi chiede di esplorare paesaggi nuovi e incerti, nuovi generi. Per me
Millennium è stata una grandissima passione e anche un progetto rischioso. Sono sopravvissuto a Millen
nium, ma adesso voglio qualcosa d’altro.
Fiona Barton, c’è uno specifico femminile nel thriller psicologico? Un talento particolare delle donne in questo genere di noir?
FIONA BARTON — Tante autrici si sono concentrate su questo aspetto. Ma personalmente non distinguo tra scrittori uomini e donne. Credo sia un mestiere talmente individuale che prescinde dal genere: scriviamo tutti le nostre storie con il nostro stile e il nostro approccio personale; e grazie al cielo abbiamo bisogno di più voci possibili non distinte per genere.
Ai due autori italiani: entrambi avete ambientato alcuni romanzi nel passato (Carlo Lucarelli con le inchieste del commissario De Luca ambientate negli anni Quaranta e Cinquanta, Maurizio de Giovanni con la serie del commissario Ricciardi negli anni Trenta). È più facile tornare indietro nel tempo che scrivere del presente?
CARLO LUCARELLI — Sì, per certi versi sì. Ci sono cose che succedono ora e in cui sei talmente immerso, anche politicamente, che è difficile trattarle con una certa oggettività. Corri il rischio di scrivere il tuo punto di vista. Allora girare il cannocchiale dall’altra parte e guardare le cose da lontano diventa più facile, anche perché noi viviamo in un Paese in cui il passato non passa mai, ed è anche il presente, e corriamo il rischio che sia il futuro. MAURIZIO DE GIOVANNI — Io faccio il poliziesco e devo ammettere che il progressivo svilupparsi della scientificità nelle indagini ha tolto spazio alla narrazione. Se racconti il passato fai a meno del Dna, se affronti l’oggi cerchi di svelare la fallibilità della scienza, l’importante è che siano storie scritte bene. Se però noi autori abbiamo il compito di narrare la realtà, il contemporaneo è più giusto.
Quanto è cambiato il rapporto con la realtà nella letteratura crime?
MICHAEL CONNELLY — Basta vedere i cinque partecipanti di questo tavolo: siamo tutti più o meno giornalisti anche se io da tempo non pratico la professione. Questo ci dà l’idea di cosa sta succedendo nel genere
crime: gli autori stanno portando più realtà nei loro libri, con una descrizione sempre più fedele di quanto sta succedendo nel mondo.
DAVID LAGERCRANTZ — Realtà e finzione si stanno fondendo sempre di più. La letteratura ruba alla vita reale e noi vediamo la vita reale attraverso la letteratura. Viviamo in un’epoca preoccupante: la crisi del clima, la crescita dei movimenti di estrema destra. Credo che tutti questi elementi confluiscano nella crime fiction, con il risultato che il genere è diventato più verosimile, ma soprattutto più politico. FIONA BARTON — Viviamo in un’epoca strana. E noi scrittori di noir rispecchiamo perfettamente quest’epoca: affrontiamo i temi, le idee, le sfide di oggi infilandoci dentro un assassino o due per la buona riuscita del romanzo. CARLO LUCARELLI — Sono d’accordo con Maurizio de Giovanni: la narrativa è quella che racconta le vere ragioni della realtà. Non ci siamo vicini, ci siamo dentro. Il problema è che la realtà corre così forte, è così assurda, che anche lo scrittore più fantasioso fa fatica a starle dietro e quindi il nostro compito diventa sempre più difficile. MAURIZIO DE GIOVANNI — La realtà è imbattibile: come follia siamo sempre perdenti in confronto a quello che succede ogni giorno, a quello che leggiamo sui giornali. Sentite questo recente fatto di cronaca avvenuto negli Stati Uniti: una bambina adottiva era in realtà una ventiduenne affetta da nanismo che ha cercato più volte di uccidere i genitori. Rispetto a una cosa così, noi siamo sempre indietro...
Ma sempre in lotta...
MAURIZIO DE GIOVANNI — La cronaca nera avvicina il lettore: la nostra forza sta nell’avere ridotto l’oleodotto che va dal nostro cuore a quello del pubblico. Ma non deve sfuggirci una cosa: raccontare storie è raccontare bene. Altrimenti è come assistere al concerto di un chitarrista virtuoso: bellissimo, ma quando torni a casa non fischietti neanche un motivo. Invece «sole cuore amore» ti rimane in testa tutto il giorno. Banale? D’accordo. Ma il comandamento non consente deroghe: abbiamo sempre bisogno di una melodia.