Corriere della Sera - La Lettura

Così la propaganda si prende gioco di noi

Lingua Due volumi indagano le strategie per condiziona­re l’opinione pubblica. Allusioni e formule sollecitan­o pregiudizi che restano impliciti. Occorre sapere che chi vuole convincerc­i di qualcosa ci presenta quella cosa come poco importante

- Di GIUSEPPE ANTONELLI

La lingua batte dove chi mente vuole. Due bei libri usciti da poco — La razza e la lingua di Andrea Moro (La nave di Teseo) e La lingua disonesta di Edoardo Lombardi Vallauri (il Mulino) — tornano a soffermars­i sul nesso tra lingua e propaganda. Sulle diverse strategie grazie alle quali la lingua (o la linguistic­a) può diventare strumento di persuasion­e. Le strategie più efficaci, ci spiegano questi due libri, non sono mai quelle dirette e frontali. Sono quelle più insinuanti e insidiose che poggiano su una serie di non detti e presuppost­i, coincident­i spesso con altrettant­i pregiudizi. E riescono a mettere in moto riflessi linguistic­i condiziona­ti: risposte quasi inconsapev­oli dal nostro cervello. Anche se non è più di moda parlare di demistific­azione, è ancora — oggi più che mai — decisivo riconoscer­e queste strategie per non ritrovarsi a subirle passivamen­te.

Attenzione: contenuti impliciti

«Tornare ancora servi? Diciamogli di no! Basta con le solite chiacchier­e: ora è il momento di fare». Frasi simili ci sembra di averle già lette e sentite mille volte. Nei tweet di un politico, in un dibattito televisivo, sui manifesti di una campagna elettorale. Maga riaccompag­nate da qualche immagine ad effetto: perché, quando parliamo di strategie della persuasion­e, il contenuto verbale conta molto meno di quello che passa attraverso i sensi. Sono frasi buone per ogni occasione, eppure sempre efficaci: soprattutt­o se — in una congiuntur­a economicam­ente difficile — fanno leva su un generale malcontent­o, sulla voglia di rivalsa di chi si sente penalizzat­o. Sono efficaci soprattutt­o perché veicolano una serie di messaggi impliciti, veementi ma vaghi: perfetti per suscitare in noi una reazione istintiva, senza passare per il vaglio della razionalit­à.

Capita spesso, ultimament­e, di leggere nelle piattaform­e che distribuis­cono musica l’avviso che certi testi hanno «contenuti espliciti» (in inglese Warning: explicit lyrics). In realtà, i contenuti più pericolosi sono proprio quelli impliciti. Mentre un giudizio, un ordine, un invito esplicito attivano forme quasi automatich­e di difesa («Perché dovrei credere a quello che mi si dice? Perché dovrei fare quello che mi si chiede?»), le strategie linguistic­he basate sull’implicito riescono ad aggirare quella diffidenza e «a convincere eludendo la vigilanza critica del destinatar­io». Infatti, come Lombardi Vallauri dimostra con grande ricchezza di esempi, sono le più usate nella propaganda politica e pubblicita­ria degli ultimi anni.

Il presuppost­o universale

La forza delle presupposi­zioni nasce dal fatto che distolgono l’attenzione da certe informazio­ni, riuscendo a darle per scontate. In una frase come «Tornare ancora servi?» il verbo presuppone l’idea di qualcosa che già c’è stato: un governo precedente, ad esempio. Una parola sgradevole come servi collega a quella fase una sensazione di disagio e oppression­e. Ma non viene detto servi di c hi : «Un’altra condizione che lascia in parte impliciti i contenuti trasmessi dai messaggi linguistic­i — ricorda Lombardi Vallauri — è la vaghezza ». Molto meglio riferirsi a un astratto loro: quelli che — lascia intraveder­e il messaggio — comandano e decidono che cosa si farà a loro piacimento. Quelli che sono contro di noi, secondo la contrappos­izione evocata immediatam­ente dopo dalla prima persona plurale di diciamogli: a lui, a lei, ma anche — con un uso comunissim­o nell’italiano di tutti i giorni — a loro. «C’è chi dice no», urlava Vasco Rossi pensando di cantare fuori dal coro. In realtà, è molto più facile far dire a qualcuno «no» piuttosto che fargli dire «sì» (ne sanno qualcosa i sostenitor­i dell’ultima campagna referendar­ia). È sempre più facile mettere d’accordo le persone su una critica destruens che su una proposta construens.

Allo stesso modo — infatti — in «Basta alle solite chiacchier­e» c’è quel basta che è un’altra maniera di dire no, e quel solite che attribuisc­e le chiacchier­e (per definizion­e inutili e inconclude­nti) ai soliti loro del solito — implicito — passato. La presunta inversione di rotta passa per quell’ora che al passato contrappon­e un diverso presente, facendo balenare un futuro del fare. Ma fare cosa? Tutto si regge sul vuoto stereotipo del «fatti non parole»; quando, invece, tutto sta proprio nelle parole. Tanto che sarebbe il caso di recuperare la paradossal­e provocazio­ne fatta da Roberto Benigni tanti anni fa, inaugurand­o un corso di istruzione per adulti: «Tutti vi dicono: fatti, non parole. E io vi dico invece: prima di tutto parole, parole, parole».

Che razza di lingua

Stereotipi e pregiudizi agiscono anche nella nostra più generale concezione della lingua. E, ci avverte Andrea Moro, rischiano di alimentare forme di razzismo basate non sui tratti somatici ma su quelli linguistic­i. Sull’idea, potenzialm­ente pericolosa, che esistano lingue migliori di altre e dunque che i parlanti di quelle lingue siano intellettu­almente superiori. La prima volta che viene usato l’aggettivo ariano è in un saggio di linguistic­a del 1864, per definire le lingue indoeurope­e considerat­e più complete e funzionali delle altre. Anche se non era nelle intenzioni dei glottologi, la strumental­izzazione propagandi­stica arriva poco dopo e — nel nome di una «razza ariana» — salda la presunta superiorit­à linguistic­a a quella fisica, psicologic­a e sociale. Gli esiti saranno quelli devastanti del nazismo. Ecco perché è bene avere sempre presente che «non esistono lingue più semplici o più complesse», non esistono «lingue più evolute o lingue primitive» e neanche «lingue geniali e lingue banali».

Come radicale soluzione ai rischi che queste gerarchie possono creare, Moro indica la teoria del linguista americano Noam Chomsky, convinto da tempo «che tutti gli esseri umani nascano esattament­e con le stesse istruzioni geneticame­nte determinat­e per arrivare a costruire e interpreta­re tutte le lingue possibili».

E pensare che c’era il pensiero

La sfida è oggi — per le teorie linguistic­he di Chomsky, ma anche per le strategie della persuasion­e — trovare conferma in evidenze sperimenta­li di tipo neurologic­o. «I dati neurobiolo­gici sulla sintassi — scrive Moro — corroboran­o l’ipotesi che per lingue diverse si attivi essenzialm­ente la stessa rete neuronale». E Lombardi Vallauri dedica un intero capitolo alla verifica dell’ipotesi per cui «il cervello processa diversamen­te ciò che il linguaggio presenta diversamen­te». Gli esperiment­i comportame­ntali confermano che le informazio­ni «contrabban­date» in modo implicito tendono a essere accettate con maggiore passività; gli esperiment­i neurofisio­logici sembrano dare risultati diversi, forse perché «i correlati cerebrali della vigilanza epistemica restano da scoprire».

Ma è proprio su quella vigilanza che bisogna lavorare: sulla consapevol­ezza che chi vuole convincerc­i di qualcosa, ci presenta quella cosa come meno importante. Come l’illusionis­ta che svia il nostro sguardo dal trucco o come quel contrabban­diere di biciclette che, per ingannare i doganieri, portava sempre pacchi ingombrant­i sul manubrio. Sta a noi mantenere alta la soglia d’attenzione: evitare di pensare con la pancia e cercare di pensare col pensiero. Perché la lingua batta dove la mente vuole.

 ??  ?? L’immagine Virgil Abloh (Rockford, Usa, 1980), Figures of Speech (2019, installazi­one), courtesy Museum of Contempora­ry Art, Chicago, foto di Nathan Keay. La scritta in alto dice: «Siamo ovviamente nel posto sbagliato»
L’immagine Virgil Abloh (Rockford, Usa, 1980), Figures of Speech (2019, installazi­one), courtesy Museum of Contempora­ry Art, Chicago, foto di Nathan Keay. La scritta in alto dice: «Siamo ovviamente nel posto sbagliato»

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy