Corriere della Sera - La Lettura
Così la propaganda si prende gioco di noi
Lingua Due volumi indagano le strategie per condizionare l’opinione pubblica. Allusioni e formule sollecitano pregiudizi che restano impliciti. Occorre sapere che chi vuole convincerci di qualcosa ci presenta quella cosa come poco importante
La lingua batte dove chi mente vuole. Due bei libri usciti da poco — La razza e la lingua di Andrea Moro (La nave di Teseo) e La lingua disonesta di Edoardo Lombardi Vallauri (il Mulino) — tornano a soffermarsi sul nesso tra lingua e propaganda. Sulle diverse strategie grazie alle quali la lingua (o la linguistica) può diventare strumento di persuasione. Le strategie più efficaci, ci spiegano questi due libri, non sono mai quelle dirette e frontali. Sono quelle più insinuanti e insidiose che poggiano su una serie di non detti e presupposti, coincidenti spesso con altrettanti pregiudizi. E riescono a mettere in moto riflessi linguistici condizionati: risposte quasi inconsapevoli dal nostro cervello. Anche se non è più di moda parlare di demistificazione, è ancora — oggi più che mai — decisivo riconoscere queste strategie per non ritrovarsi a subirle passivamente.
Attenzione: contenuti impliciti
«Tornare ancora servi? Diciamogli di no! Basta con le solite chiacchiere: ora è il momento di fare». Frasi simili ci sembra di averle già lette e sentite mille volte. Nei tweet di un politico, in un dibattito televisivo, sui manifesti di una campagna elettorale. Maga riaccompagnate da qualche immagine ad effetto: perché, quando parliamo di strategie della persuasione, il contenuto verbale conta molto meno di quello che passa attraverso i sensi. Sono frasi buone per ogni occasione, eppure sempre efficaci: soprattutto se — in una congiuntura economicamente difficile — fanno leva su un generale malcontento, sulla voglia di rivalsa di chi si sente penalizzato. Sono efficaci soprattutto perché veicolano una serie di messaggi impliciti, veementi ma vaghi: perfetti per suscitare in noi una reazione istintiva, senza passare per il vaglio della razionalità.
Capita spesso, ultimamente, di leggere nelle piattaforme che distribuiscono musica l’avviso che certi testi hanno «contenuti espliciti» (in inglese Warning: explicit lyrics). In realtà, i contenuti più pericolosi sono proprio quelli impliciti. Mentre un giudizio, un ordine, un invito esplicito attivano forme quasi automatiche di difesa («Perché dovrei credere a quello che mi si dice? Perché dovrei fare quello che mi si chiede?»), le strategie linguistiche basate sull’implicito riescono ad aggirare quella diffidenza e «a convincere eludendo la vigilanza critica del destinatario». Infatti, come Lombardi Vallauri dimostra con grande ricchezza di esempi, sono le più usate nella propaganda politica e pubblicitaria degli ultimi anni.
Il presupposto universale
La forza delle presupposizioni nasce dal fatto che distolgono l’attenzione da certe informazioni, riuscendo a darle per scontate. In una frase come «Tornare ancora servi?» il verbo presuppone l’idea di qualcosa che già c’è stato: un governo precedente, ad esempio. Una parola sgradevole come servi collega a quella fase una sensazione di disagio e oppressione. Ma non viene detto servi di c hi : «Un’altra condizione che lascia in parte impliciti i contenuti trasmessi dai messaggi linguistici — ricorda Lombardi Vallauri — è la vaghezza ». Molto meglio riferirsi a un astratto loro: quelli che — lascia intravedere il messaggio — comandano e decidono che cosa si farà a loro piacimento. Quelli che sono contro di noi, secondo la contrapposizione evocata immediatamente dopo dalla prima persona plurale di diciamogli: a lui, a lei, ma anche — con un uso comunissimo nell’italiano di tutti i giorni — a loro. «C’è chi dice no», urlava Vasco Rossi pensando di cantare fuori dal coro. In realtà, è molto più facile far dire a qualcuno «no» piuttosto che fargli dire «sì» (ne sanno qualcosa i sostenitori dell’ultima campagna referendaria). È sempre più facile mettere d’accordo le persone su una critica destruens che su una proposta construens.
Allo stesso modo — infatti — in «Basta alle solite chiacchiere» c’è quel basta che è un’altra maniera di dire no, e quel solite che attribuisce le chiacchiere (per definizione inutili e inconcludenti) ai soliti loro del solito — implicito — passato. La presunta inversione di rotta passa per quell’ora che al passato contrappone un diverso presente, facendo balenare un futuro del fare. Ma fare cosa? Tutto si regge sul vuoto stereotipo del «fatti non parole»; quando, invece, tutto sta proprio nelle parole. Tanto che sarebbe il caso di recuperare la paradossale provocazione fatta da Roberto Benigni tanti anni fa, inaugurando un corso di istruzione per adulti: «Tutti vi dicono: fatti, non parole. E io vi dico invece: prima di tutto parole, parole, parole».
Che razza di lingua
Stereotipi e pregiudizi agiscono anche nella nostra più generale concezione della lingua. E, ci avverte Andrea Moro, rischiano di alimentare forme di razzismo basate non sui tratti somatici ma su quelli linguistici. Sull’idea, potenzialmente pericolosa, che esistano lingue migliori di altre e dunque che i parlanti di quelle lingue siano intellettualmente superiori. La prima volta che viene usato l’aggettivo ariano è in un saggio di linguistica del 1864, per definire le lingue indoeuropee considerate più complete e funzionali delle altre. Anche se non era nelle intenzioni dei glottologi, la strumentalizzazione propagandistica arriva poco dopo e — nel nome di una «razza ariana» — salda la presunta superiorità linguistica a quella fisica, psicologica e sociale. Gli esiti saranno quelli devastanti del nazismo. Ecco perché è bene avere sempre presente che «non esistono lingue più semplici o più complesse», non esistono «lingue più evolute o lingue primitive» e neanche «lingue geniali e lingue banali».
Come radicale soluzione ai rischi che queste gerarchie possono creare, Moro indica la teoria del linguista americano Noam Chomsky, convinto da tempo «che tutti gli esseri umani nascano esattamente con le stesse istruzioni geneticamente determinate per arrivare a costruire e interpretare tutte le lingue possibili».
E pensare che c’era il pensiero
La sfida è oggi — per le teorie linguistiche di Chomsky, ma anche per le strategie della persuasione — trovare conferma in evidenze sperimentali di tipo neurologico. «I dati neurobiologici sulla sintassi — scrive Moro — corroborano l’ipotesi che per lingue diverse si attivi essenzialmente la stessa rete neuronale». E Lombardi Vallauri dedica un intero capitolo alla verifica dell’ipotesi per cui «il cervello processa diversamente ciò che il linguaggio presenta diversamente». Gli esperimenti comportamentali confermano che le informazioni «contrabbandate» in modo implicito tendono a essere accettate con maggiore passività; gli esperimenti neurofisiologici sembrano dare risultati diversi, forse perché «i correlati cerebrali della vigilanza epistemica restano da scoprire».
Ma è proprio su quella vigilanza che bisogna lavorare: sulla consapevolezza che chi vuole convincerci di qualcosa, ci presenta quella cosa come meno importante. Come l’illusionista che svia il nostro sguardo dal trucco o come quel contrabbandiere di biciclette che, per ingannare i doganieri, portava sempre pacchi ingombranti sul manubrio. Sta a noi mantenere alta la soglia d’attenzione: evitare di pensare con la pancia e cercare di pensare col pensiero. Perché la lingua batta dove la mente vuole.