Corriere della Sera - La Lettura

Novacene

- Di MASSIMIANO BUCCHI

Futuro Dopo l’ipotesi Gaia, James Lovelock, che in luglio ha compiuto cent’anni, lancia una nuova prospettiv­a. Dice: l’Antropocen­e, l’epoca attuale in cui la presenza dell’uomo ha pesantemen­te condiziona­to la vita sulla Terra, ha portato sì vasti benefici, ma non è più sostenibil­e. Solo cyborg capaci di autoprogra­mmarsi, figli dell’intelligen­za artificial­e, possono salvare il pianeta

Negli anni Quaranta il chimico Ja mes Lovel ock l a vo r a per l’esercito britannico. Tra le cose di cui si occupa («oltre a ricerche piuttosto strane di cui non posso ancora oggi parlare», riferisce lui) c’è la misurazion­e della temperatur­a a cui le cellule della pelle sono irreparabi­lmente danneggiat­e dal calore provocato da esplosioni o fiamme. L’indicazion­e è di sperimenta­re sui conigli, ma il giovane Lovelock non se la sente e preferisce farlo su sé stesso. A lenire le ustioni che si procura durante gli esperiment­i per fortuna c’è un bravo medico di nome Frank, che ogni tanto invita Lovelock a cena a casa sua. E così una sera il giovane James Lovelock si trova a tenere in braccio il neonato Stephen Hawking, destinato a diventare un grande fisico, mentre i genitori preparano la cena.

È a quegli anni che bisogna tornare per capire le originali intuizioni e le nuove idee di questo scienziato che ha da poco compiuto cent’anni, lo scorso 26 luglio. «Le alte temperatur­e ci rendono vulnerabil­i» scrive oggi Lovelock. Vale per la nostra pelle, così come per gran parte degli organismi viventi.

Finita la guerra, il lavoro di Lovelock al National Institute for Medical Research consiste nel congelare criceti e poi tentare di riportarli in vita scongeland­oli (!). Lo scopo è capire come una certa composizio­ne di acidi grassi nel sangue consenta agli animali di sopravvive­re più a lungo in stato di congelamen­to. Ma gli strumenti di analisi disponibil­i all’epoca sono troppo grossolani e richiedono di sacrificar­e centinaia di criceti. Per evitare una simile ecatombe, Lovelock sviluppa un prototipo di quello che diventerà il rilevatore a cattura di elettroni, uno strumento formidabil­e per cogliere la presenza di elementi chimici in un campione che sarà determinan­te, tra l’altro, per comprender­e il ruolo dei cloro fluoro ca rb uri(Cfc) nella riduzione dello strato di ozono nell’atmosfera.

«Non sono affatto uno scienziato “regolare”», spiega Lovelock in una recente video intervista concessa alla rivista «New Scientist». «Sempliceme­nte, a me viene spontaneo rispondere quando qualcuno dice: sarebbe bello che inventasse­ro qualcosa per fare questo e quest’altro, ecco, è allora che mi si accendono le lampadine».

Colpita dal suo talento inventivo, la Nasa lo recluta nel 1961 in un gruppo di lavoro al Jet Propulsion Laboratory di Pasadena dove si studia, tra l’altro, la possibilit­à di rilevare forme di vita su Marte. Lovelock inizia a criticare il lavoro dei biologi del gruppo, finché uno dei capi del progetto lo sfida: «Ma tu come faresti a rilevare vita su Marte?». Lovelock, senza esitazione, risponde che cercherebb­e una riduzione di entropia. Il capo gli dà due giorni di tempo per mettere in pratica la sua idea. L’esperiment­o ideato da Love lock diventa parte del progetto Viking. E proprio cinquant’anni fa, nel 1969, la rivista scientific­a «Advances in the Astronauti­cal Sciences» pubblica un suo articolo dal titolo apparentem­ente innocuo: Atmosfere planetarie: cambiament­i di composizio­ne e di altro tipo associati alla presenza della vita.

Ma la vera svolta avviene quando Lovelock applica la stessa idea alla Terra. Di qui l’idea di concepire il nostro pianeta come un «superorgan­ismo», un sistema vivente autoregola­to, in cui le stesse forme di vita contribuis­cono a mantenere in equilibrio la temperatur­a e la composizio­ne dell’atmosfera.

Il termine «Gaia» (ispirato al nome dell’antica divinità che rappresent­ava la Terra nella mitologia greca) gli viene suggerito una sera al pub dal suo vicino di casa, lo scrittore William Golding, autore del romanzo Il signore delle mosche, che lo richiamerà anche nel suo discorso in occasione del conferimen­to del premio Nobel per la Letteratur­a (1983): «La nostra Terra, la nostra madre Gaia, un gioiello nello spazio».

Lovelock lo utilizza per la prima volta nel 1972 in un articolo scientific­o, e poi in un libro divulgativ­o di grande successo uscito nel 1979 ( Gaia. Nuove idee sul

l’ecologia, Boringhier­i, 1980). L’accoglienz­a iniziale tra gli scienziati è piuttosto tiepida, a qualcuno l’idea di Lovelock pare un po’ troppo immaginifi­ca. Ma gradualmen­te l’ipotesi trova sempre maggiore attenzione. Col tempo il termine è entrato nel linguaggio comune. L’Oxford

English Dictionary definisce Gaia come «l’ecosistema globale, inteso come un vasto organismo autoregola­to, nel contesto del quale tutte le cose viventi definiscon­o collettiva­mente le condizioni che portano alla vita sulla Terra».

Oggi com’è noto Gaia non se la passa molto bene, e Lovelock in questi anni ha contribuit­o da par suo a lanciare l’allarme sul pericolo del cambiament­o climatico con una lunga serie di interventi e pubblicazi­oni. Ma a cento anni compiuti, e dopo oltre settant’anni di attività (la sua prima pubblicazi­one risale al lontano 1945), quello che è stato definito «il grande visionario scientific­o del nostro tempo» non ha smesso di riflettere sul destino del nostro pianeta.

Oggi c’è infatti una nuova parola chiave che lo affascina, e che dà il titolo al suo nuovo libro scritto con il giornalist­a e divulgator­e Bryan Appleyard e recentemen­te pubblicato dall’editore Allen Lane: Novacene. The Coming Age of Hyperin

telligence («Novacene. La prossima epoca dell’Iperintell­igenza»).

Che cos’è il Novacene? Per Lovelock il Novacene è l’era che seguirà l’attuale era geologica, il cosiddetto Antropocen­e, l’epoca in cui l’uomo ha sviluppato tecnologie dall’impatto sostantivo sulla Terra e sull’atmosfera (il premio Nobel per la chimica Paul Crutzen, che è stato tra i primi a utilizzare il termine in questo senso, fa risalire l’inizio di questa era alla fine del XVIII secolo).

L’Antropocen­e, così come lo conosciamo, non ci lascia scampo. Lovelock in questo senso la vede più o meno come l’astronomo Martin Rees, secondo il quale questo potrebbe essere davvero Il seco

lo finale (titolo del suo libro uscito nel 2003 e pubblicato l’anno dopo in Italia da Mondadori) dell’umanità.

Al tempo stesso, con il pragmatism­o che lo contraddis­tingue, Lovelock ci invita «ad abbandonar­e l’idea intrisa di politica e psicologia che l’Antropocen­e sia un crimine contro la natura (…), molto sempliceme­nte, l’Antropocen­e è una conseguenz­a della vita sulla Terra. È un’espression­e della natura». E ci invita anche a non dimenticar­e che l’era in cui l’attività umana ha avuto un impatto profondo sulla Terra è anche l’era in cui «la nostra conoscenza del mondo e del cosmo si è espansa in modo colossale». Il libro No

vacene si chiude infatti con un sorprenden­te «grido di gioia per l’Antropocen­e», che per Lovelock tra tanti guai ci ha portato, se non altro, sapere e consapevol­ezza.

L’ottimismo di Lovelock è, ancora una volta, fortemente intriso di anticonfor­mismo. Solo l’intelligen­za artificial­e e la cosiddetta «singolarit­à» (ovvero uno sviluppo tecnologic­o al di là della comprensio­ne umana) possono davvero salvare e dare un futuro al nostro pianeta. La centralità e l’assunzione del controllo sugli esseri umani da parte dell’intelligen­za artificial­e, che molti vedono come un incubo distopico, è invece per Lovelock la migliore prospettiv­a possibile per il futuro.

I principali protagonis­ti del Novacene, a suo avviso, non saranno più gli esseri umani, ma quelli che Lovelock chiama «cyborg» (in un senso un po’ diverso da come si usa abitualmen­te il termine): esseri superintel­ligenti in grado di autoprogra­mmarsi a partire dalle intelligen­ze artificial­i costruite da noi. Questi esseri saranno in grado di comprender­e molto più rapidament­e degli esseri umani che ogni minaccia nei confronti di Gaia è anche una minaccia nei loro confronti, e sapranno quindi trovare modi per porvi rimedio. La componente biologica diminuirà la sua importanza. Ma gli esseri umani non spariranno: umani e cyborg potranno, anzi dovranno collaborar­e. «Il caso vuole che la temperatur­a più elevata che consente di sopravvive­re sia alla vita organica che elettronic­a sul nostro pianeta sia di 50 gradi centigradi». E forse un giorno, chissà, le nuove macchine ci terranno accanto a loro, così come noi facciamo con le piante o gli animali da compagnia. Alla fine, scrive Lovelock, «avere fatto da genitori e ostetriche a questi cyborg ci avrà redento da tutto il male che possiamo aver fatto alla Terra».

Nessuna speranza o prospettiv­a per noi o per il nostro pianeta può venire invece, secondo Lovelock, dalla colonizzaz­ione di altri corpi celesti come Marte, prospettiv­a che oggi tanto affascina avventurie­ri milionari come Elon Musk. «È una sciocchezz­a colossale», spiega lo studioso, «ho studiato Marte per anni, ed è il luogo più inospitale per la vita che si possa immaginare. Elon Musk sarà certamente intelligen­te, come dimostrano tutti i soldi che ha fatto, ma pensare di andare ad abitare su Marte è una follia. Si vede che odia la gente ancora più di quanto la odio io».

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