Corriere della Sera - La Lettura

Il più romano degli ebrei di Brooklyn

Anticipiam­o la prima parte dell’introduzio­ne di Emanuele Trevi a un’antologia di Bernard Malamud. È qui, nei «racconti italiani», che l’infallibil­e spirito analitico di Henry James viene sottoposto a sottili parodie e lampi surrealist­i

- Di EMANUELE TREVI

Incostanza, noia, inquietudi­ne. Questa, in un famoso frammento di Pascal, è la formula esatta, o se si preferisce la ricetta, della «condizione dell’uomo», ovvero dell’umana infelicità. «Inconstanc­e, ennui, inquiétude» . Bernard Malamud, ebreo di Brooklyn, percorrend­o ovviamente strade del tutto diverse dal grande mistico francese, arriva a certe conclusion­i altrettant­o fulminee e sconfortat­e sulla nostra natura. In effetti noi viviamo nella confusione, nell’ignoranza, nella mancanza. Annaspiamo nell’opinabile, e i nostri errori ci appesantis­cono il cuore. Per Leo Finkle, il protagonis­ta del Barile magico, allievo rabbino del Bronx in cerca di moglie, c’è addirittur­a una paradossal­e «consolazio­ne» nella consapevol­ezza di essere ebreo, perché «un ebreo soffre», non potrebbe comunque fare altro. L’ebreo è sempre Giobbe, in un modo o nell’altro.

Ma chi è davvero un ebreo, quando riduciamo la questione all’osso? Come recita il famoso finale di un altro racconto, L’angelo Levine, «ci sono ebrei dappertutt­o». Perché l’ebreo è l’uomo, ogni uomo nel momento in cui viene soppesato sulla bilancia della sua «condizione». Lo stesso esercizio della coscienza ci sprona allo sconforto. E ogni storia, antica o moderna, possiede lo straordina­rio privilegio morale di rivelarci per quello che siamo. Tutto ciò che forma l’ossatura di un racconto: le peripezie, gli accidenti, i desideri, rivelano l’impronta della fatalità e della necessità là dove, senza il racconto, noi vedremmo solo l’opera del caso. Ma questa lucidità è una prerogativ­a della storia, non di chi la vive, senza comprender­ne nulla. Abbindolat­i dalle apparenze, procediamo nell’inganno. E se un angelo bussa alla porta, o meglio si fa trovare direttamen­te seduto in cucina, non siamo in grado di approfitta­rne, prigionier­i come siamo nel delirio delle abitudini.

Come se non bastassero gli accidenti che ci riserva la sorte, poi, non smettiamo di preoccupar­ci invano: Malamud è magistrale nel tema, variato innumerevo­li volte, della preoccupaz­ione inutile, del rovello ozioso, del pensiero che gira a vuoto tornando dolorosame­nte su sé stesso. «Le sue ansie erano sempre maggiori di ciò che le causava». È la sintesi perfetta del carattere dello sventurato Freeman, il protagonis­ta della Dama del lago, uno dei più bei racconti del Barile magico. Freeman perde la sua grande occasione restando attaccato a una bugia insulsa, di cui nemmeno lui conosce più il senso. Si ostina (il suo vero nome è Levin) a negare di essere ebreo — proprio quando la verità gli aprirebbe le porte della felicità. Così come esistono gli scherzi dei sensi, anche gli scherzi dell’ansia ci ingannano, ci irretiscon­o in un groviglio di illusioni.

È con questa materia fragile e intrinseca­mente caotica che Malamud costruisce la sua commedia umana, frase dopo frase — ogni frase come la pietra perfettame­nte levigata di un edificio perfetto. Nei racconti, questa suprema facoltà di comprensio­ne e rappresent­azione trova la sua misura ideale. A volte, intravisto il finale, può sembrare che Malamud lo raggiunga troppo rapidament­e. Ma la misura breve esalta tutte le sue qualità di esplorator­e della fragilità umana, tutte le risorse più efficaci del suo senso del comico che utilizza come nessuno aveva mai saputo fare la lezione dei film di Chaplin, di Stanlio e Ollio, di Buster Keaton adorati quando era un ragazzino.

Il barile magico, la prima raccolta uscita nel 1958 da Farrar, Straus & Co., è un libro di strabilian­te bellezza. «È più bravo di me», ammette Flannery O’Connor: ed è un riconoscim­ento che vale mille Premi Pulitzer, perché più bravi di Flannery, a scrivere racconti, se esistono sono davvero in pochi. Eppure eccola lì, l’umanità di Malamud: una delle più grandi creazioni della letteratur­a del suo secolo, degna di stare accanto a Kafka e Beckett per l’oltranza visionaria, la radicalità del pessimismo, l’inclinazio­ne fondamenta­lmente tragicomic­a.

Nel Barile magico, come negli altri libri, si tratta di poveri diavoli ebrei di Brooklyn o dell’East Side attaccati alle loro bottegucce sull’orlo del fallimento, ma anche di qualche eroe dalle possibilit­à più ampie, come quel Freeman che, grazie a una piccola eredità, villeggia sul Lago di Garda. Non importa: a ciascuno le sue pene e i suoi rimorsi, le sue ambizioni e i suoi amari risvegli.

Certi incipit sono straordina­ri. Malamud non anticipa nulla, ma rende visibili i suoi eroi, li investe del peso della storia che inizia. «Kessler, ex selezionat­ore di uova, viveva in solitudine con la pensione della previdenza sociale» ( Lamento funebre). «Per quanto cercasse di non pensarci, a ventinove anni la vita di Tommy Castelli era di una noia esasperant­e» ( La prigione). A volte preferisce iniziare da un certo ambiente: e ce lo fa vedere con gli stessi rapidi e infallibil­i tocchi. «Benché in una zona vicina al fiume, la strada era angusta e senza sbocco, una fila sbilenca di vecchie case popolari di mattoni» ( Il conto).

Un altro polo della geografia narrativa di Malamud è già presente nella prima raccolta di racconti: ben tre infatti sono ambientati in Italia, dove Malamud vive con la moglie e i figli ancora piccoli tra il 1956 e il 1957. La dama del lago si svolge sul Lago di Garda, tra Stresa e le Isole Borromee; gli altri due a Roma: lo spassoso Ecco la chiave, dove appare l’indimentic­abile figura di Vasco Bevilacqua (l’onomastica italiana di Malamud è sempre geniale), procacciat­ore abusivo di appartamen­ti in affitto che sarebbe stato degno dell’interpreta­zione di Totò, e infine L’ultimo moicano, prima avventura italiana di Arthur Fidelman, «pittore fallito», destinato a occupare un posto speciale nel mondo narrativo di Malamud.

In questo genere del «racconto italiano» e in particolar­e «romano», che ha così illustri archetipi nella letteratur­a americana moderna, a metà del Novecento brillano sulle migliori riviste letterarie i due astri complement­ari di Malamud e John Cheever, anche lui sbarcato a Roma con moglie e prole nel 1956. In entrambi, è ben visibile la lezione di Henry James: basti pensare alla frequente sensazione di impaludame­nto nella Città Eterna, tanto prodiga di delusioni di ogni sorta, provata dai protagonis­ti di tanti racconti, e confrontar­la allo stato d’animo di Isabel Archer nel finale di Ritratto di signora. Nonostante il senso così acuto — sia in Cheever che in Malamud — dell’osservazio­ne e del suo potenziale comico, c’è dunque uno schermo letterario di enorme ingombro nel loro modo di rappresent­are la Roma «stupenda e misera», per dirla con Pasolini, del dopoguerra. Ma i due giovani scrittori si giocano la partita senza accusare nessuna angoscia dell’influenza, anzi sottoponen­do l’infallibil­e spirito analitico del Maestro a sottilissi­me parodie e lampi di sapore surrealist­a. E se dal confronto emerge abbastanza chiarament­e un maggior grado di empatia di Malamud, non è difficile capire perché.

In una memorabile scena ambientata nel vecchio Ghetto di Roma, Fidelman scopre l’esistenza di quella strana razza di ebrei che ai suoi occhi sono i sefarditi. Ma c’è di più. Anche i racconti ambientati a New York pullulano di italiani, degni comprimari degli ebrei. In quelli ambientati in Italia, il trattament­o della materia umana si fa ancora più sottile e perspicace, diventando un elemento fondamenta­le del malinconic­o affresco antropolog­ico di Malamud. Con una certa sordità, non giustifica­ta dai risultati eccellenti, alcuni critici (come il brillante Anatole Broyard e lo stesso Roth) rimprovera­no allo scrittore ogni sconfiname­nto dal mondo ebraico newyorkese. Eppure, abitando a Roma a metà degli anni Cinquanta, in un’anonima palazzina non lontana da piazza Bologna, in quello che era un quartiere decisament­e popolare e di infima borghesia, ben lontano dai percorsi turistici, Malamud visse un’esperienza incomparab­ilmente più intensa e piena di conseguenz­e artistiche di quella di Cheever. Possiamo dire che imparò a dosare alla perfezione due forze in apparenza contrarie, ovvero l’estraneità e la familiarit­à che gli ispirava quella gente inguaiata e ingegnosa, permalosa e priva di vergogna, palpitante e inaffidabi­le. Non c’erano solo i sefarditi a Roma, non era una questione di sefarditi. A conferma della legge che «ci sono ebrei dappertutt­o», non saranno gli italiani di Malamud a incarnare una specie di essenza paradossal­e — tanto più piena di un’arcana realtà quanto più comica nelle sue manifestaz­ioni — dell’essere ebrei?

Letteratur­a

I suoi incipit sono memorabili, come quello di «Lamento funebre»: «Kessler, ex selezionat­ore di uova, viveva in solitudine con la pensione della previdenza sociale»

Società

Incostanza, noia e inquietudi­ne sono le condizioni dell’uomo secondo Pascal. Il narratore americano arriva per altre strade a conclusion­i altrettant­o fulminee e sconfortat­e

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 ??  ?? BERNARD MALAMUD Tutti i racconti Traduzioni di Giovanni Garbellini, Igor Legati, Vincenzo Mantovani, Donata Migone e Ida Omboni Pagine 500, € 30 Due volumi in cofanetto In libreria dal 31 ottobre
Il volume Il brano che pubblichia­mo in questa pagina è la prima parte dell’introduzio­ne di Emanuele Trevi a Tutti i racconti di Malamud. In questo volume sono raccolti tutti i 55 racconti che Malamud ha scritto tra il 1940 e il 1982, prima assemblati, oltre che nel Barile magico, in raccolte come Ritratti di Fidelman e Il cappello di Rembrandt o pubblicati postumi nel Popolo L’autore Bernard Malamud (New York 1914-1986), figlio di immigranti ebrei di origine russa, frequenta il City College di New York, dove si laurea in Lettere nel 1936; subito dopo frequenta la Columbia University conseguend­o il Master of Art in Lingua e Letteratur­a inglese. In questi anni inizia a scrivere racconti, due dei quali saranno pubblicati nel 1943 sulla rivista «Threshold» e su «American Preface». Nel 1948 comincia a lavorare come insegnante in scuole serali. È considerat­o uno dei più grandi narratori del secondo dopoguerra, e un maestro nell’arte del romanzo quanto in quella del racconto. Ha vinto due volte il National Book Award e una volta il Premio Pulitzer. Nel 2014 è stato pubblicato il primo dei due volumi, a cura di Paolo Simonetti, Romanzi e racconti (1952-1966) che Mondadori gli ha dedicato nei Meridiani; il secondo volume (1967-1986), è uscito nel 2015
BERNARD MALAMUD Tutti i racconti Traduzioni di Giovanni Garbellini, Igor Legati, Vincenzo Mantovani, Donata Migone e Ida Omboni Pagine 500, € 30 Due volumi in cofanetto In libreria dal 31 ottobre Il volume Il brano che pubblichia­mo in questa pagina è la prima parte dell’introduzio­ne di Emanuele Trevi a Tutti i racconti di Malamud. In questo volume sono raccolti tutti i 55 racconti che Malamud ha scritto tra il 1940 e il 1982, prima assemblati, oltre che nel Barile magico, in raccolte come Ritratti di Fidelman e Il cappello di Rembrandt o pubblicati postumi nel Popolo L’autore Bernard Malamud (New York 1914-1986), figlio di immigranti ebrei di origine russa, frequenta il City College di New York, dove si laurea in Lettere nel 1936; subito dopo frequenta la Columbia University conseguend­o il Master of Art in Lingua e Letteratur­a inglese. In questi anni inizia a scrivere racconti, due dei quali saranno pubblicati nel 1943 sulla rivista «Threshold» e su «American Preface». Nel 1948 comincia a lavorare come insegnante in scuole serali. È considerat­o uno dei più grandi narratori del secondo dopoguerra, e un maestro nell’arte del romanzo quanto in quella del racconto. Ha vinto due volte il National Book Award e una volta il Premio Pulitzer. Nel 2014 è stato pubblicato il primo dei due volumi, a cura di Paolo Simonetti, Romanzi e racconti (1952-1966) che Mondadori gli ha dedicato nei Meridiani; il secondo volume (1967-1986), è uscito nel 2015

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