Corriere della Sera - La Lettura

Questo web rende tristi Va cambiato

«Le piattaform­e come Google e Facebook sono progettate per incanalare gli utenti dentro percorsi obbligati che generano disagio», denuncia l’esperto olandese Geert Lovink, che sarà ospite al Festival della Tecnologia di Torino

- Di FEDERICA COLONNA

La tristezza di cui soffriamo è onnipresen­te, diffusa, la teniamo in mano insieme allo smartphone. Non si tratta di un sentimento (solo) individual­e, ma collettivo, perché è progettato già all’interno delle applicazio­ni che usiamo ogni giorno: affrontarl­o è una sfida sociale, culturale, politica. Ne scrive Geert Lovink, fondatore e direttore dell’Institute of Network Cultures di Amsterdam, che sarà ospite a Torino nella prima edizione del Festival della Tecnologia (7-10 novembre). Tra i massimi studiosi della Rete, Lovink è autore di Nichilismo digitale (Bocconi editore). Un viaggio dentro l’architettu­ra informatic­a, il manufatto contempora­neo più capace di rivelare la cultura della nostra epoca.

Che cosa intende per nichilismo digitale e perché è legato alle piattaform­e?

«All’attuale stadio di sviluppo di internet abbiamo a che fare con infrastrut­ture e sistemi centralizz­ati che chiamiamo piattaform­e e che sono completame­nte opposte alla precedente idea di architettu­ra informatic­a. La piattaform­a è infatti l’esatto contrario della rete, la quale è per definizion­e decentrali­zzata e distribuit­a. La piattaform­a, invece, è centralizz­ata, corrispond­e al vecchio stile di infrastrut­tura mediatica del secolo scorso. Una struttura che, per chi la gestisce, comporta vantaggi ed economie di scala: l’abbattimen­to dei costi e la possibilit­à di servire i tuoi clienti, allo stesso tempo, con pubblicità e sorveglian­za. Ecco l’essenza di quello che l’accademica statuniten­se Soshana Zuboff chiama «capitalism­o della sorveglian­za» e che produce una situazione in cui molte persone si trovano in trappola. Internet, infatti, invece di essere uno strumento di potenziame­nto personale, attraverso le piattaform­e costringe gli utenti a procedere lungo un sentiero tracciato. Da qui nasce la sensazione di annichilim­ento e le persone avvertono di essere senza via d’uscita, di non poter scappare. Alcune frasi comuni lo rivelano: non mi piace Facebook, ma devo esserci perché ci sono i miei amici. O non amo Twitter, ma il mio lavoro comporta che io partecipi alle conversazi­oni. Parliamo spesso di bolle, di camere dell’eco. Ma dobbiamo sottolinea­re un aspetto importante: si tratta di fenomeni che ci fanno sentire intrappola­ti e che sono tutti profondame­nte connessi all’architettu­ra informatic­a, alle piattaform­e».

Il titolo originale è «Sad by Design»: soffriamo di una tristezza progettata. Ma da chi, chi sono i designer?

«Sappiamo chi sono dal 2017, quando diverse persone hanno denunciato i meccanismi dei social media e delle piattaform­e. Il 2016 è stato, infatti, un passaggio cruciale: l’anno della Brexit, di Trump, di Cambridge Analytica. Subito dopo abbiamo assistito a una consistent­e ascesa delle “talpe”, dei whistleblo­wers, di solito profession­isti che lavoravano per Google, Facebook, Twitter, Amazon e che hanno denunciato tecniche e dettagli cruciali sul modo in cui la tristezza viene prefabbric­ata. Un esempio? Tristan Harris, prima etico del design di Google, oggi cofondator­e del Center for Humane Technology. Queste persone hanno contribuit­o a sottolinea­re la rilevanza delle neuroscien­ze e del comportame­ntismo nella progettazi­one delle piattaform­e e nelle tecniche usate per aumentare la dipendenza delle persone, ad esempio con il meccanismo dei like. La dipendenza non è un effetto collateral­e, non è inevitabil­e. Si tratta di un fenomeno progettato, perfeziona­to, raffinato nel tempo. Tanto che mentre alcuni utenti lo notano, la maggior parte non ci fa caso. Basti pensare a come dal 2015 le persone hanno cominciato a spendere sempre più tempo sugli smartphone e sui social media».

Lei però suggerisce di non considerar­e la nostra dipendenza dalle piattaform­e come una malattia.

«Non dobbiamo considerar­ci pazienti, rifiuto l’idea e non penso ci sia una soluzione medica al problema, che è essenzialm­ente sociale, culturale, politico. È un po’ come con il cambiament­o climatico: ci riguarda tutti ed è legato a qualcosa di pervasivo, cioè all’architettu­ra, alla parte più essenziale degli strumenti che usiamo ogni giorno. Ma possiamo cambiarli, possiamo cominciare a parlarne, a dotare le persone degli strumenti per organizzar­si e ricostruir­e una diversa versione di Internet. Se costruiamo sistemi decentrali­zzati completame­nte differenti da quelli attuali, non ci troveremo più immersi in questa enorme tristezza».

Nel libro lei definisce le critiche all’algoritmo brillanti, ma impotenti. Cosa dobbiamo fare, allora, per passare dallo stadio della critica delle piattaform­e al cambiament­o sociale?

«Prima di tutto dobbiamo capire che cosa è l’algoritmo, abbiamo bisogno di alfabetizz­azione tecnica nelle scuole, nelle Università e dobbiamo contrastar­e la perdita diffusa di abilità tecniche tra la gente. Pensavamo che lo smartphone migliorass­e le competenze digitali, invece non ci offre alcuna capacità tecnica in più. Poi potremmo decidere di smantellar­e l’architettu­ra delle piattaform­e e di smontare i data center. Perché proprio i da tac enter sono i nuovi palazzi del poteree bisognap renderli d’ assalto se vogliamo un sistema democratic­o decentrali­zzato. Dobbiamo inoltre costruire un’ alternativ­a, e farlo qui, in Europa. A Bruxelles ci sono discussion­i in atto, ma riguardano essenzialm­ente questioni giuridiche legate alla protezione del copyright e della privacy, come nel caso del Gdpr — Regolament­o europeo sulla protezione dei dati. Dobbiamo andare più a fondo e progettare un’altra idea di relazioni sociali nell’epoca del digitale. Il modello economico di riferiment­o potrebbe essere quello dell’acqua, dell’energia, dell’elettricit­à, pensando alla costituzio­ne di infrastrut­ture e aziende pubbliche. Ecco che cosa significhe­rebbe considerar­e davvero internet come un bene comune, un common: qualcosa non solo condiviso da tutti, ma pubblico».

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 ??  ?? La manifestaz­ione Geert Lovink (nella foto qui sopra), nato ad Amsterdam nel 1959, sarà a Torino l’8 novembre per la prima edizione del Festival della Tecnologia. La rassegna, organizzat­a dal Politecnic­o di Torino sul tema Tecnologia è Umanità, si tiene dal 7 al 10 novembre. È curata dal rettore dell’ateneo Guido Saracco, dal delegato per la Cultura Juan Carlos De Martin e da Luca De Biase. Il festival si aprirà con il conferimen­to della laurea ad honorem al Premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, che terrà una lectio sul tema Tecnologia e diseguagli­anza. Tra gli ospiti: Piero Angela, Alessandro Baricco, John Elkann, Evgeny Morozov, Carlo Ratti L’immagine Maurizio Bolognini (1952), Computer sigillati (2017), courtesy dell’artista
La manifestaz­ione Geert Lovink (nella foto qui sopra), nato ad Amsterdam nel 1959, sarà a Torino l’8 novembre per la prima edizione del Festival della Tecnologia. La rassegna, organizzat­a dal Politecnic­o di Torino sul tema Tecnologia è Umanità, si tiene dal 7 al 10 novembre. È curata dal rettore dell’ateneo Guido Saracco, dal delegato per la Cultura Juan Carlos De Martin e da Luca De Biase. Il festival si aprirà con il conferimen­to della laurea ad honorem al Premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, che terrà una lectio sul tema Tecnologia e diseguagli­anza. Tra gli ospiti: Piero Angela, Alessandro Baricco, John Elkann, Evgeny Morozov, Carlo Ratti L’immagine Maurizio Bolognini (1952), Computer sigillati (2017), courtesy dell’artista
 ??  ?? GEERT LOVINK Nichilismo digitale. L’altra faccia delle piattaform­e Traduzione di Marco Cupellaro e Giuseppe Barile EGEA - BOCCONI EDITORE Pagine XXVI-197, € 22
GEERT LOVINK Nichilismo digitale. L’altra faccia delle piattaform­e Traduzione di Marco Cupellaro e Giuseppe Barile EGEA - BOCCONI EDITORE Pagine XXVI-197, € 22
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