Corriere della Sera - La Lettura
Monologo a due tra il poeta e il mare
Giuseppe Conte presenta una raccolta che è un viaggio dal mar Ligure (proprio e di Montale) fino a Omero e Odisseo. Anche se «non c’è un’Itaca nella mia vita. Non c’è un’isola a cui ritornare»
Giuseppe Conte non ha mai amato le mezze misure. Il suo nuovo li brodi poesie, Non finirò di scrivere sul mare
(Mondadori), ci viene dunque incontro come una riconferma. Fin dal titolo suona infatti come un attestato di fedeltà a sé stesso e al proprio interlocutore elettivo, il mare appunto, e insieme come una rivendicazione di libertà, che poi è quella di seguire, costi quel che costi, la strada assai poco frequentata che ormai da qualche decennio ha scelto per la propria poesia.
Era da parecchio tempo che non faceva sentire la sua voce. Il libro di versi precedente, Ferite e rifioriture, è del 2006. Nel frattempo ha tradotto, continuato a scrivere romanzi, soprattutto vissuto. L’unica tappa intermedia è stata nel 2015 la pubblicazione della sua opera poetica, Poesie
1983-2015 (Oscar Mondadori), dove figurava già qualche inedito confluito poi nella raccolta presente. Introducendo quel volume, Giorgio Ficara rimarcava proprio la situazione singolare di Conte, perché questo poeta che spesso e volentieri canta a vele spiegate, fedele a un’idea di poesia e della funzione del poeta che sembrerebbe non intaccata dai sospetti, dalle reticenze e dalle diminuzioni tipicamente novecentesche, volente o nolente porta comunque con sé un sistema di relazioni oppositive e di contrasti che ne segnano la piena appartenenza al proprio tempo. «Come scrivere fuori del Novecento», notava allora Ficara, «come dire la verità su un albero, sul mare, sull’intimo abisso di noi stessi, orfani dei nostri padri dissuasori, liberi dalla loro influenza ma anche impoveriti dalla mancanza di questa loro influenza?».
Anche se alcuni compagni di strada o spiriti affini non gli sono comunque mancati (Roberto Mussapi, ad esempio, o Alessandro Ceni), l’originalità, l’isolamento, il carattere non allineato di Conte sta proprio qui. Si è scelto i propri padri, il che ha significato ripudiarne o, come si dice spesso in letteratura, ucciderne altri. Così è vero che i molto amati Whitman, d’Annunzio, D. H. Lawrence, Shelley, Yeats, non sono i padri naturali che il tempo aveva previsto per lui. Come non lo è il riferimento a civiltà e culture lontane dal qui ed ora dell’età del sospetto: celtica, azteca, pellerossa, etrusca, greca e latina, indiana e soprattutto araba. Conte, insomma, ha chiuso gli occhi e le orecchie per vedere lontano da qui nel tempo e nello spazio, per ascoltare una diversa musica, un diverso richiamo.
Se si rileggono anche solo i primi versi dell’Ultimo aprile bianco, il poemetto in quartine che inaugura la stagione poetica che tutti conosciamo, non si può non avvertire la rottura nettissima con quello che era previsto si scrivesse in quegli anni (siamo sul finire dei Settanta): «Aprile che ritorna e che consuma nei/ giardini di ginestre e di acanti, nei/ voli di passeri invisibili e nei calendari/ aprile che sgretola che versa dalle tiepide// foci le nuove nuvole»... Questa musica così capace d’incantare e catturare portava implicitamente con sé qualcosa d’intrepido, di provocatorio, perfino di violento; qualcosa, soprattutto, che non ammetteva ritorno. Certo non si trattava di sola letteratura, no. E chi conosce o ha anche solo incrociato il poeta deve sicuramente aver sentito questo suo essere sempre in qualche misura da solo; da solo perché con la mente e lo spirito da qualche altra parte.
Quest’uomo ha temuto di perdere la propria vita, di vederla già tutta scritta. E così ha preso il largo, una volta per sempre e senza pentimenti. Molti lettori hanno visto in tutto questo una fuga: dalle responsabilità della storia, dalla ragionevolezza, dal senso di realtà, dalla misura. Ma forse è più giusto pensare anche al significato opposto e reciproco del suo viaggio. Non solo o tanto la fuga e la negazione, dunque, ma la necessità e la ricerca di altro, di qualcosa che non si trovava qui.
L’amore, la gioia, la natura e, più di tutto, l’inarrivabile libertà, rappresentano i punti cardinali della sua rosa dei venti. E se la poesia è stata il mezzo di questo viaggio (scoprendo forse di esserne a sua volta il fine), il mare ne è stato l’immagine prima e ultima. Perché è originaria, e perché comprende tutto, proprio come la vita. «Ama la libertà, cerca la gioia/ e non dimenticarti mai del mare», è l’esortazione del nuovo libro, che se pure diviso in sezioni e singoli componimenti si può comunque leggere come un poema unitario dedicato appunto al mare. La metafora è tra le pochissime davvero fondamentali, tanto dal punto di vista antropologico, quanto di conseguenza da quello della letteratura, almeno da Omero in poi. È proprio quello, infatti, il mare a cui il poeta si rivolge: «Mare che hai udito le parole/ di Omero e di Odisseo». Ma da lì, sempre diverso e sempre uguale a sé stesso, è anche ogni altro mare, a partire dal dialogo iniziatico con il mar Ligure (Conte è nato a Porto Maurizio nel 1945) evocato in uno dei poemetti più belli: «Ero un bambino voluto, curato, amato,/ nella casa di via Carducci 3/ quando avevo paura di te, mare/ e vedevo la sera che veniva/ mentre tornavo dal campo di gioco/ e si accendevano le luci alle finestre/ e le stelle sui tetti a poco a poco:/ perché c’era la sera? c’era il cielo?». La Liguria è anche la patria di Eugenio Montale, il poeta degli Ossi di seppia, il cui retaggio è talmente connaturato alla pur diversa musica di Conte da sembrare inscritto nelle cose stesse. Ma poi è anche il mare soltanto sognato o agognato con gli occhi della mente; o infine il mare che è tutto e nulla di un diminuito Odisseo internauta, secondo il titolo di una poesia.
Questo, come detto, è un libro di fedeltà. E fedeli alla propria natura e al proprio credo sono anche queste poesie. Si possono riconoscere la stessa energia, la stessa propulsione sensibile e ideale di un tempo. A tratti anche lo stesso entusiasmo. Eppure, anche se spesso il gesto della scrittura viene restituito in presa diretta («Sto davanti a te con un taccuino/ al tavolino di questo caffè»), le situazioni di comunione e di pienezza estatica per lo più risultano adesso tematizzate, diventando esse stesse oggetto di argomento. Il che è indizio non tanto di una relativizzazione, quanto di una aumentata problematicità. «Sono solo più di tutti, mare, persino di te». I fantasmi dissuasori come la solitudine, le ferite della vita, il costo stesso di certe scelte mai più ritrattate, si fanno sentire. Del resto Orfeo deve voltarsi e perdere qualcosa per cominciare a cantare. Così si crea una specie di cortocircuito tra la stanchezza patita e l’esortazione a credere sempre e comunque nel mare, cioè nel valore della vita; o ancora — e qui si trovano i momenti migliori — tra un desiderio di libertà così illimitato e incoercibile da non avere un porto in cui davvero approdare: «Non c’è un’Itaca nella mia vita./ Non c’è un’isola a cui ritornare».