Corriere della Sera - La Lettura

Miagolii? Bombe? Non dopate l’arte con effetti speciali

Mauro Covacich ha visto a Roma la mostra su Bacon e Freud. I quadri sono illuminati bene, le didascalie funzionano, persino l’audioguida è utile. Sarebbe utile... Ma quel commento drogato da rumori di fondo distrae (e distrugge) la visita

- Di MAURO COVACICH

Capisco bene l’assillo dei direttori di musei e gallerie: riconquist­are visitatori. Dev’essere un bel problema quando la gente, dopo il calvario scolastico, preferisce fare qualsiasi altra cosa piuttosto che rinchiuder­si in quelle sale buie, piene di spiegazion­i e immagini ferme. Quindi capisco i tentativi di rendere meno indigesta la visita museale, camuffare il posto, riempirlo di schermi interattiv­i, cuffie, touchscree­n, animazioni parlanti, qualsiasi stravaganz­a possa rassicurar­e chi entra sulla innocuità dell’esperienza, se non addirittur­a sulla sua piacevolez­za. Del resto, è lo stesso di quanto accade nel mondo editoriale, che ha trovato nel sistema sempre più capillare dei festival l’ultima possibilit­à per riuscire a promuovere i libri, mandando gli autori ogni fine settimana da una parte all’altra della penisola a presentars­i, raccontars­i, mostrarsi simpatici e alla mano. Sono tentativi disperati, almeno nel mio caso, ma non mi sottraggo certo, se questi tentativi riescono a tenermi ancora per un po’ lontano dal macero. È come quando si accusavano i ciclisti di doping: sì, è vero, si dopavano, ma come potevano tirarsi indietro? Il doping, alla fine, aiuta a non mollare, lo fa anche con i musei e i libri, quindi ben venga il doping.

Poi però mi capita di entrare al Chiostro del Bramante per vedere la mostra di Bacon e Freud (e gli altri notevoli comprimari della Scuola di Londra) di cui «la Lettura» ha già dato conto con ampiezza. All’ingresso vengo dotato di guida con cuffiette — inclusa nel biglietto, tiene a precisare la commessa — e vengo avviato verso la prima sala. Siamo in pochi, è un lunedì mattina, i quadri sono bene illuminati, l’atmosfera ideale per godersi la visita. Mi avvicino al primo ritratto di Lucian Freud, Girl with a Kitten, 1947, una giovane donna che regge un gatto per il collo, quasi volesse strozzarlo, ma i suoi occhi sono persi nel vuoto in uno sguardo allucinato e malinconic­o che mi ricorda un meraviglio­so ritratto di Cagnaccio di San Pietro ( La ragazza e lo specchio, 1932). Ora perderei qualche minuto per capire bene quello sguardo, quanto assomiglia a quello comparso nella mia memoria, quanto stride, nella sua estatica immobilità, con la presa violenta sul collo del gatto. E cercherei di capire il gatto, che mi fissa in un modo tutt’altro che spaventato, direi anzi che mi scruta con l’intenzione di intimidirm­i o forse smascherar­mi, denudarmi, chissà. Avrei bisogno di concentraz­ione per capirlo, avrei bisogno anche di un pizzico di devozione, o meglio, di devota soggezione, per chiedergli di entrare, di sprofondar­e dentro il dipinto (olio su tela), ma ecco la voce entusiasta del critico Costantino D’Orazio raccontarm­i in cuffia dei giorni del bombardame­nto a Londra, mentre in sottofondo si sentono le sirene dei rifugi antiaerei, eccolo spiegarmi il gattino mentre dei miagolii incessanti cercano di rubargli la scena. Sono finito in un tunnel virtuale pieno di effetti speciali, devo togliermi subito le cuffie se voglio tornare con i piedi per terra, qui e ora, nella prima sala del museo, all’improvviso di nuovo silenziosa.

I racconti immersivi di D’Orazio saranno senz’altro belli, non ho motivo di dubitarne, io discuto l’immersivo. Il doping va bene, ma fino a un certo punto. A suon di alleviare l’impatto, a suon di rassicurar­e il visitatore tenendolo in un ambiente sinestetic­o a lui familiare, un po’ messaggio vocale, un po’ doccia emozionale, lo si priva del contatto con l’opera, che è in effetti un contatto rischioso. Ogni didattica dell’arte dovrebbe r i cordar l o. Quando ve do quegli splendidi bambini seduti in circolo nei musei europei, spero sempre che i loro insegnanti li stiano mettendo in guardia. Il rischio magari potrebbe non essere un fattore deterrente, i bambini sono attratti dal rischio. Comunque sia, l’incontro con l’opera d’arte non è innocuo, spesso non è neanche piacevole, trattandos­i di un’esperienza di verità. Trascinarl­o a forza nell’infinito intratteni­mento significa bonificarl­o, disinnesca­rlo, quando invece quell’incontro ha bisogno di tutta la sua intrinseca tensione.

Ovviamente è giusto mettere a disposizio­ne del visitatore un apparato informativ­o — le didascalie della mostra curata da Elena Crippa, tra l’altro, sono molto ben fatte —, è giusto fornirgli anche una guida, registrata o dal vivo, se lo desidera, perché un’erudizione corretta e misurata può agevolare la comprensio­ne di un quadro.

Ma poi il visitatore dev’essere lasciato solo: lui e l’opera, niente effetti speciali. L’interpreta­zione è un corpo a corpo, ora va in scena l’animo umano, quello dell’autore e quello di chi osserva. Nella fattispeci­e, trattandos­i di un ritratto, siamo i n t r e : L u - cian Freud, sua mog l i e ( l a r a - gazza con il gatto) e io. La tela incornicia­ta, appesa alla parete, è un mero oggetto finché non viene qualcuno a interrogar­la. Solo nell’attimo in cui la guardo diventa un’opera, e si riaccender­à o g ni vo l t a c he un uomo o una donna si metteranno in gioco ne l l a s u a c o ntemplazio­ne, ogni volta che un visitatore accetterà di essere visitato dall’opera. L’arte accade, non è. Viene riattivata dall’interprete anche nel caso della pittura, come il lettore con il libro: viene a suo modo eseguita. Che cosa mi sta dicendo quella ragazza, dipinta laggiù, lontana nello spazio e nel tempo, da un marito di cui conosco solo l’irrefrenab­ile impulso di scavatore, di cercatore? Cosa cercava Freud in quello sguardo? E nello sguardo del gatto? L’interprete insomma ha un ruolo attivo nello statuto dell’opera. Il miagolio e le sirene diffusi in cuffia lo rendono invece un consumator­e passivo dell’infinito intratteni­mento, creano un’atmosfera, una suggestion­e, ma perché allora non aggiungere qua e là anche dei bastoncini di incenso?

La nostra mentalità, prima ancora del nostro sistema educativo, ha rinchiuso la letteratur­a e l’arte nella categoria del «doveroso»: un passaggio obbligato, di fatto una seccatura, di cui ci si può liberare appena ottenuto il diploma o, nel caso dei più fanatici, di cui ci si può servire praticando­la stancament­e anche in età adulta per il vantaggio che se ne trae in termini di posizione sociale, ovvero trasforman­do la seccatura in cosiddetta cultura.

Ma leggere libri e contemplar­e quadri non è doveroso, è un viaggio che sgomenta — sgomenta e seduce — perché ci rivela, di noi stessi, cose che ignoravamo del tutto. Non a caso, è un viaggio che genera dipendenza, doparlo ulteriorme­nte ottiene l’effetto contrario. Magari aiuta il ceto medio riflessivo a mandare giù un altro boccone di cultura, ma non avvicina nessuno alla vera esperienza dell’arte.

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 ??  ?? L’appuntamen­to e le opere La mostra di cui Mauro Covacich scrive nell’articolo è Bacon, Freud, la Scuola di Londra. Opere della Tate, aperta a Roma al Chiostro del Bramante fino al 23 febbraio 2020. A sinistra: Ragazza con gattino (1947) di Lucian Freud; sopra: La ragazza e lo specchio (1932) di Cagnaccio di San Pietro
L’appuntamen­to e le opere La mostra di cui Mauro Covacich scrive nell’articolo è Bacon, Freud, la Scuola di Londra. Opere della Tate, aperta a Roma al Chiostro del Bramante fino al 23 febbraio 2020. A sinistra: Ragazza con gattino (1947) di Lucian Freud; sopra: La ragazza e lo specchio (1932) di Cagnaccio di San Pietro

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