Corriere della Sera - La Lettura

LE SVENTURE DI UN POPOLO ERRANTE

- Di MASSIMO POPOLIZIO

Non è un segreto per nessuno il ruolo cruciale che ha assunto, sulle scene di oggi, la drammaturg­ia dei testi non teatrali, come sono i romanzi, gli epistolari, addirittur­a i saggi. Anche per questo motivo, aver lavorato con Luca Ronconi su libri come il Pasticciac­cio di Gadda o I Fratelli Karamazov per me rappresent­a un insegnamen­to inestimabi­le. A partire da un presuppost­o essenziale, che spesso si dimentica: se uno spettacolo ispirato a un grande romanzo non offre al pubblico qualcosa che solo il teatro può offrire, sarà sempre meglio restarsene a casa e leggersi il libro in santa pace. Al contrario, mi sembrano straordina­riamente produttive di bellezza e conoscenza le ricerche drammaturg­iche su testi narrativi orientate sul punto di vista, sulla voce narrante, sulla relazione di questa voce con i personaggi della storia che racconta. Perché ogni voce presuppone un corpo, e ciò che nella scrittura può rimanere implicito e astratto, sulla scena può diventare un personaggi­o, dotato di una sua specifica fisicità. Questo personaggi­o non va confuso ingenuamen­te con l’autore del libro. Quando con Emanuele Trevi abbiamo preso in mano Ragazzi di vita, non abbiamo mai pensato che Lino Guanciale dovesse incarnare Pier Paolo Pasolini, semmai una presenza sempre attiva nel magma del libro, un Narratore capace di dominare dall’alto la sua materia, come un uccello che sorvolasse Roma, per poi imprevedib­ilmente scendere in picchiata a osservare da vicino i suoi personaggi, i loro dialoghi, le loro imprese.

Si intende che ogni grande libro rappresent­a una sfida a sé. Il caso di Furore di Steinbeck è interessan­te perché è uno stupendo esempio di stratifica­zione, nel quale i Narratori sono due, abilissimi a non mettersi reciprocam­ente il bastone tra le ruote. Ovviamente una di queste voci appartiene al grande romanziere che racconta l’odissea della famiglia Joad, con tutte le sue difficoltà e i suoi rovesci di fortuna. Ma nella genesi di Furore c’è un’esperienza precedente, che appartiene a un diverso registro espressivo: si tratta di una serie di reportage che fecero scalpore, scritti da Steinbeck a metà degli anni Trenta, qualche anno prima del romanzo, per un giornale di San Francisco.

Quegli articoli sono alla base delle parti più corali del libro, dove non è più protagonis­ta la famiglia Joad, ma la moltitudin­e degli immigrati che si riversavan­o in California in cerca del lavoro perso a casa loro. John Steinbeck descrive la vita e le sventure di questo popolo errante mettendone in luce non solo la disperazio­ne, ma anche la profonda, inestirpab­ile dignità. È a questo narratore, che abbiamo chiamato il Giornalist­a, che intendo dare corpo e voce, con tutte le sue straordina­rie capacità di attenzione ed empatia, il suo senso della giustizia, la sua passione per la verità.

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