Corriere della Sera - La Lettura
Pat Metheny, i due volti della chitarra
Arriva in tournée in Italia il musicista che conquista con sonorità profumate di ottimismo americano e che intriga con il jazz più avanguardistico. A «la Lettura» dice: «Ma non mi interessano i generi, cerco di dare corpo alla vita»
Pat Metheny, americano classe 1954, indiscutibilmente uno dei più importanti chitarristi viventi, per una grande parte degli appassionati è anche uno strano caso (jazzistico) di dottor Jekyll e mister Hyde. Ha due pubblici diversi, altrettanto affezionati. Alla guida della sua band — il tanto celebrato (da una parte) quanto snobbato (dall’altra) Pat Metheny Group, lanciato con successo internazionale dall’omonimo disco del 1978 — il chitarrista con quel suo volto tipicamente yankee sempre sorridente, riesce a riempire gli stadi e a far scatenare migliaia di giovani al ritmo di una musica rassicurante, che profuma di ottimismo americano e di sonorità filmiche da viaggio con lieto fine. Pensiamo, in questo caso, a dischi come Offramp, Travels, American Garage, in cui molto dell’atmosfera sonora si deve anche alle tastiere di Lyle Mays, sopraffino musicista e inseparabile compagno di avventure di Metheny nei primi anni. Molte altre volte, in diverse formazioni da lui scelte, il chitarrista ha dimostrato invece che il jazz, quello più avanguardisticamente inteso, lo sa suonare, ci è dentro, eccome, al punto da essere il suo linguaggio principale. Qui l’elenco dei dischi è quello a fianco di Ornette Coleman, Charlie Haden, Joshua Redman, Dave Holland, John Zorn, Chris Potter, Brad Mehldau...
A Metheny — che sarà in Italia per una tournée con gruppi diversi dal 17 al 26 novembre, in trio con il contrabbassista Darek Oleszkiewicz e il batterista Jonathan Barber e con orchestra — che risponde a «la Lettura» via mail, non interessano più di tanto queste suddivisioni. «Quello che ho sempre cercato di fare — sostiene — in tutte le situazioni in cui ho lavorato, è di dare una forma sonora, cercare un suono adatto, per le cose che più amo e mi interessano. Non sono mai stato interessato più di tanto a un’idea di genere, di stile. Sono discorsi più legati a una discussione culturale e politica che negli anni ho scoperto non interessante quanto lo spirito della musica in sé. I musicisti che ho ammirato di più, e non mi metto a fare l’elenco, sono quelli che hanno voluto approfondire le loro conoscenze, non solo nella musica, ma nella vita in generale, riuscendo alla fine a dare loro una forma musicale. Se poi sono riusciti a farlo attraverso l’improvvisazione, meglio ancora».
Poi aggiunge: «Quando suono, sono felice e basta. Punto. E se poi lo faccio in maniera densa, scarna, forte, morbida, dentro o fuori la tonalità, dipende dal momento, non dalla formazione con la quale sono sul palco». Spiega che per lui tutto ciò che fa, appartiene comunque al Pat Metheny Group, perché «il mio lavoro principale è sempre stato quello del band-leader. Il che significa per me prima di tutto comporre la musica per riuscire a stabilire bene una direzione da intraprendere, poi creare la giusta combinazione di persone per arrivare insieme al mio obiettivo».
Metheny è stato un caposcuola in un momento, i primi anni Ottanta, in cui c’è stata l’esplosione della chitarra come strumento, sia nel jazz (dove, va detto, a parte i casi dei grandi virtuosi del passato, quindi Charlie Christian, Django Reinhardt, Wes Montgomery, Jim Hall, Joe Pass, Barney Kessel, Kenny Burrell… ha fatto difficoltà a diventare uno strumento guida, come lo è stato per il rock) che nella fusion (intendendo con questa parola anche il jazz-rock in tutte le sue accezioni).
In quel periodo, grazie anche a uno sviluppo delle tecnologie (pedaliere, effetti vari, applicazione del sintetizzatore allo strumento), la chitarra ha avuto il suo periodo di massimo splendore. Bill Frisell, John Scofield, Steve Tibbets, John Abercrombie, Mick Goodrick, Mike Stern, Allan Holdsworth sono tutti nomi legati in quegli anni a un’evoluzione importante dello strumento elettrico. «A parte Mick Goodrick e John Abercrombie, gli altri sono venuti tutti dopo di me, ma non mi sento di dire di averli influenzati. Nel mio caso, la necessità, direi viscerale, che sentivo in quegli anni era di riuscire a creare con la chitarra il suono che avevo in testa. Cominciai ad utilizzare più amplificatori sul palco con effetti di vario tipo; aggiunsi i primi delay (che fanno arrivare il suono in leggero ritardo, ndr) e altri accorgimenti, anche se sono convinto che un’idea di suono dovrebbe esistere a prescindere da qualsiasi tecnologia».
Quando si esibisce da solo (accade spesso che nel corso dei concerti in gruppo, Metheny si prenda lo spazio per suonare un paio di brani) alla chitarra classica con corde in nylon, «arpeggia» con uno stile galante, piacevole, spontaneo, raffinato, costruito ad arte per non deludere la sensibilità e le aspettative dell’ascoltatore. Il pubblico ama il suo suono caldo e legnoso, che intarsia la melodia di finezze (abbellimenti vari, trilli, mordenti, appoggiature), tra una ballad che può essere un brano della colonna sonora di Nuovo Cinema Paradiso o And I Love Her dei Beatles, oppure una morbida improvvisazione costruita su ritmi latini molto soft.
In Italia sarà soprattutto in trio con Darek Oleszkiewicz e Jonathan Barber, che sono il suo nuovo trio. «Ho scelto Darek e Jonathan per una serie di concerti che recentemente ho iniziato a fare e dove il repertorio è quello di musica orchestrale che ho scritto nel corso degli anni. Intuivo, e non ho sbagliato, che entrambi hanno la preparazione e la sensibilità giusta per potersi muovere in musiche di questo genere, dove ogni tanto si aggiunge un gruppo orchestrale. Negli ultimi tempi abbiamo fatto concerti insieme con diverse compagini nell’Europa dell’Est e, in alcune occasioni, abbiamo suonato soli, in trio. Mi trovo bene e mi piace fare cose sempre nuove. Non posso continuare a suonare Bright Size Life (il suo primo disco del 1976, con Jaco Pastorius e Bob Moses, ndr) per tutta la vita».
La discografia di Metheny è davvero vasta e la sua ricerca di dialogo con altri musicisti non è mai venuta meno. La formula del duo gli è sempre stata congeniale. Citiamo un paio di dischi importanti in questo senso, Beyond the Missouri Sky (Verve, 1997) in duo con Charlie Haden, contrabbassista campione del free con il quale ha lavorato più volte, e Jim Hall & Pat Metheny (Telarc, 1999), nel quale dialoga con il sommo maestro della chitarra jazz. Esuberanza e riservatezza. Trasparenza e profondità. Metheny e Hall. Due chitarre a confronto. Il virtuosismo di uno (Metheny) è manifesto, esplicito, cantabile; quello dell’altro (Hall) più mentale, nascosto, schivo, concettuale: il primo ha un fraseggio chiaro e luminoso come il giorno, l’altro misterioso e pallido come la notte, ma capace, come pochi altri, di evocare quelle zone dell’animo in cui si muovono le vegetazioni del pensiero. Non è da meno un’incisione di Metheny del 1984, in trio con Charlie Haden e Billy Higgins, Rejoicing, dove (forse) è contenuto uno dei capolavori interpretativi del chitarrista, il brano Lonely Woman di Ornette Coleman. Da ascoltare e riascoltare.