Corriere della Sera - La Lettura
Corinto e Panama I mondi connessi
La connettività è un destino sempre inseguito dall’uomo. Per ottenerla è stato necessario abbattere barriere, creare ponti, aprire canali e rotte. Per millenni, in maniera incessante. Una tensione fatta di «folli voli», tentativi, pericoli, fallimenti, successi. Con più di un obiettivo: certo, rendere il pianeta a misura d’uomo, ridurlo a essenza percorribile, come è stato detto; ma era comprensibile a tutti, in ogni tempo e latitudine, che riducendo lo spazio diminuivano — e tanto! — i tempi e i costi di trasporto.
Di stretti naturali si è cibata l’economia mondiale lungo i secoli. Il Mediterraneo non è un grande lago grazie a Gibilterra, lo sfiatatoio verso l’Atlantico; mentre il Bosforo è stato il teatro dell’incontro e dello scontro tra Oriente e Occidente. Se poi volgiamo lo sguardo verso altre zone del pianeta, lo sguardo non può che cadere sull’importanza dello stretto di Malacca, dominato oggi dalla città di Singapore: fondamentale in ogni tempo, perché collega la vastità dell’Oceano Indiano con la Cina, il Giappone, il Pacifico. Un imbuto lungo circa 800 chilometri e largo anche 180, che tocca le tigri asiatiche — Thailandia, Malesia, Indonesia — e si restringe dalle parti di Singapore, trasformandosi in una sacca di appena tre chilometri, da cui transita ogni anno il 40 per cento delle merci che corrono per il mondo trasportate da 60 mila navi. Dove in passato fluivano le ricchezze che andavano a irrorare l’Asia e il Mediterraneo: sandalo, noce moscata, pepe, chiodi di garofano, pietre preziose, porcellane, sete. Controllato, in quello che fu il nostro Medioevo, da grandi imperi, spesso semisconosciuti, ma nodali per la storia del mondo: Srivijaya, Majapahit, Malacca, con grandi capitali come l’emporio di Palembang.
Ma la connettività si può anche costruire, scavando canali. L’idea più remota fu di tagliare un pezzo del deserto del Sinai, dal golfo di Suez fino al delta del Nilo e unire così l’Oceano Indiano al Mediterraneo. Ci pensò per primo il faraone Sesostri intorno al 1897-1839 a.C. Idea ripresa, come riporta Erodoto, dal faraone Nekao II, tra il 610 e il 594 a.C., senza che però l’opera venisse completata. Fu invece il persiano Dario I (522486 a.C.) a realizzare il canale, restaurato poi in epoca ellenistica da Tolomeo II Filadelfo, che regnò tra il 285 e il 246 a.C. Una realizzazione già allora imponente, dal percorso diverso dall’attuale, considerato che il golfo di Suez arrivava più a nord di oggi e il canale attraversava i Laghi Amari e poi, procedendo da est verso ovest, raggiungeva uno dei rami del delta del Nilo.
Dopo, il canale subì l’erosione del tempo e fu abbandonato. Ma l’idea non tramontò. Ci pensarono in molti, dall’imperatore Traiano a Napoleone Bonaparte. Tutti però senza successo. Nel 1854 la svolta, quando Ferdinand de Lesseps fu incaricato dai governi egiziano e francese di occuparsi dell’opera. Si creò una commissione, guidata dal veneziano Pietro Paleocapa, mentre il progetto prescelto fu del trentino Luigi Negrelli. Si partì il 25 aprile 1859 e ci vollero dieci anni. Fino al 17 novembre 1869, quando il canale fu inaugurato sulle note della Marcia egizia di Johann Strauss jr.
Musica che fa da ouverture ad altre due opere eccezionali. Una anch’essa di spirito antichissimo: il canale tagliato nell’istmo di Corinto per congiungere lo Jonio e l’Egeo, immaginato già nel VII secolo a.C. dal tiranno Periandro e poi da tanti altri, fra i quali i romani Cesare, Caligola, Nerone. Fu realizzato però solo il 25 luglio 1893, dopo una lunga sequela di tentativi e fallimenti.
L’altra opera davvero ricuce le misure al mondo e ne rimpicciolisce la taglia: il canale di Panama. Una via navigabile che aprisse l’istmo l’avevano immaginata già i conquistatori spagnoli, consapevoli che una striscia di terra di poco più di ottanta chilometri non poteva impedire che l’Atlantico e il Pacifico si incontrassero. Il progetto rimase però a lungo nel cassetto, per la difficoltà delle condizioni ambientali di Panama e per il dislivello tra i due mari. Occorrevano insomma soluzioni ingegneristiche e idrauliche che per lungo tempo non furono disponibili. I francesi furono, nell’Ottocento, i primi a proporre un progetto e a investirci, ma l’operazione si risolse nel fragoroso crac delle azioni panamensi.
Ci vollero allora i capitali e la potenza militare degli Stati Uniti per dare avvio al canale — dopo una sommossa fomentata da Washington che staccò Panama dalla Colombia nel 1903 — con un contratto capestro che imponeva l’esclusivo e permanente controllo americano sull’opera e sul suo utilizzo. I lavori cominciarono nel 1907 e il canale fu aperto sette anni dopo, nell’agosto 1914: solo nel 1999, dopo vicende anche tragiche (ad esempio l’invasione americana nel 1989 per abbattere il generale Manuel Noriega), è passato sotto la sovranità panamense. In oltre un secolo sono transitate dal canale di Panama più di un milione di imbarcazioni, per una stazza totale che supera i 9 miliardi di tonnellate. Numeri enormi a definire la misura di un mondo che, giorno dopo giorno, si piega alla connettività.