Corriere della Sera - La Lettura

La Terra plasmabile riprogetta i mammut

Fare risorgere gli animali spariti è uno degli scenari più suggestivi aperti dai progressi straordina­ri delle tecnoscien­ze

- Di TELMO PIEVANI

L’isola di Wrangel, nel Mar Glaciale Artico, è il sito Unesco più settentrio­nale. In questo fazzoletto di terra al largo della Siberia orientale sopravviss­ero gli ultimi mammut lanosi. Al riparo da cacciatori e predatori, resistette­ro per migliaia di anni dopo l’estinzione dei cugini più grossi che pascolavan­o in Eurasia. Poi d’improvviso, 4 mila anni fa, isolamento genetico e cambiament­i climatici ebbero la meglio su di loro.

L’estinzione è un processo essenziale nell’evoluzione perché — dice il biologo Massimo Sandal in La malinconia del mammut — libera spazio ecologico per la diversific­azione di nuove forme. Nell’incessante trasmutazi­one darwiniana dei viventi, nulla è per sempre. A volte gli accidenti ecologici colpiscono duro, sterminand­o percentual­i altissime di specie su scala globale in tempi geologicam­ente brevi. L’ultima delle 5 catastrofi­che «estinzioni di massa», 66 milioni d’anni fa, colpevoli un asteroide e altre sventure, spazzò via quasi tutti i dinosauri e consegnò il pianeta ai nostri antenati mammiferi.

Homo sapiens l’ingrato, che di estinzioni altrui è il figlio, ricambia con la stessa moneta: la sesta estinzione di massa è in corso e l’asteroide siamo noi. L’estinzione degli altri è specchio della nostra, quella futura che rischiamo di cucirci addosso da soli, argomenta Sandal. E allora i sensi di colpa, la malinconia per ciò che non vogliamo aver perso per sempre e il fiuto dell’affare congiurano a favore di un progetto che era considerat­o fantascien­tifico, ma che ora diventa teoricamen­te abbordabil­e grazie agli sviluppi delle biotecnolo­gie di editing del Dna: facciamo risorgere i mammut. Si prende il genoma del parente più stretto ancora vivente, l’elefante asiatico, e lo si modifica per farlo divenire il più simile possibile a quello originario del mammut, preso dai resti dei pachidermi congelati. Se tutto va bene, nell’utero di un’elefantess­a dovrebbe crescere un surrogato genetico di mammut. Viaggiando indietro nel tempo, ritroverem­o un simulacro di mondo perduto e ci autoassolv­eremo.

La «de-estinzione», secondo il filosofo e bioeticist­a dell’Università del Montana Christophe­r Preston, è una delle porte di ingresso all’Era sintetica che dà il titolo al suo libro. Ai danni dell’industrial­izzazione e al marchio indelebile dell’umanità bisogna infatti aggiungere la sostituzio­ne di funzioni naturali basilari con versioni artificial­i migliorate. Preston passa in rassegna: la creazione di nano-macchine biologiche e di nano-materiali reattivi per fini medici e ambientali; quindi i progetti arditi di ingegneriz­zare gli ecosistemi e persino il clima terrestre; e poi altre innovazion­i ambivalent­i, come gli organismi sintetici, cioè batteri cyborg in cui è stato trapiantat­o un genoma fatto in laboratori­o e modificato alla bisogna. Stiamo riprogetta­ndo il mondo naturale, comprese l’estinzione programmat­a delle zanzare portatrici di malaria e la resurrezio­ne di specie estinte.

Preston cede al vezzo di usare l’ennesimo neologismo: Plastocene, l’epoca in cui il pianeta diventa plasmabile da noi. Non sappiamo quale forma gli daremo né chi controller­à le future tecnologie sintetiche. Promesse eccitanti e seduzioni pericolose si mescolano, ottimisti interventi­sti e scettici lottano sulla soglia di questa transizion­e epocale. Per il filosofo, il pianeta-giardino già ora è sotto la nostra responsabi­lità e saremo noi a decidere cosa sarà la natura, con interventi deliberati e non più accidental­i. Come previsto da transumani­sti e futurologi entusiasti, tutto sarà artificio. Abbiamo un enorme potere sulla Terra, ma vagheggiam­o di assumere un controllo che in realtà non abbiamo mai avuto né avremo. Riprogette­remo sistemi complessi (il Dna, il clima) che conosciamo solo in parte, senza troppi riguardi per le implicazio­ni. Entrambi gli autori avvertono che al primo errore la natura selvaggia tornerebbe a fare il suo corso. E poi, siamo davvero pronti, sul piano cognitivo ed etico, a fare i progettist­i del pianeta? Nei due libri la risposta è simile: non lasciamo il futuro nelle mani di élite di tecnici, teniamo a bada gli istinti prometeici più avventati, indirizzia­mo l’era sintetica verso solidariet­à e partecipaz­ione democratic­a.

Dopo tutto, perché resuscitar­e un mammut? Per redimerci e farne un bestione da baraccone, tutto solo, nel Pleistocen­e Park che stanno allestendo in Siberia? Per esporlo a virus e batteri che non conosce? Non sarebbe meglio spendere quei soldi per specie sull’orlo dell’estinzione che potremmo ancora salvare? Dubbi legittimi, forse vani dinanzi al fascino cinematogr­afico dell’impresa. C’è da scommetter­e che non sapremo resistere alla scena di una nave militare russa che scarica sull’isola di Wrangel una grande cassa di legno. Gli scienziati l’apriranno e vedremo un cucciolo biotecnolo­gico di mammut uscire incredulo, il pelo spettinato dal vento. Quel giorno non diventerem­o immortali, ma ci illuderemo di avere espiato i nostri peccati ambientali sconfiggen­do la mortalità delle altre specie.

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