Corriere della Sera - La Lettura
Wyn Evans crea gomitoli con la luce
L’artista britannico mette in scena all’HangarBicocca di Milano la personale più vasta, concepita come una partitura musicale. Di lui ha detto Maurizio Cattelan, con consueta irriverenza, all’inaugurazione: «Un Lucio Fontana impazzito»
«Un Lucio Fontana impazzito ». Maurizio C atte lan,confer mandola sua natura irriverente, laser a dell’ inaugurazione non ha trattenutola battuta difronte alla monumentale opera di Cerith Wyn Evans, installata al centro della grande navata del Pirelli HangarBicocca, a Milano. E davvero, al primo impatto, il pensiero va alla celebre installazione di Fontana realizzata nel 1951 per la IX Triennale e oggi all’ultimo piano del Museo del Novecento, davanti al Duomo di Milano.
Ma qui, l’opera di Wyn Evans, Forms in Space... by Light (in Time) realizzata nel 2017 per la Tate di Londra (con l’aggiunta di un nuovo corpus) e composta da qualche chilometro di tubi di neon, è come liberata dai vincoli dello spazio, esaltata da infiniti vortici, linee asimmetriche, cerchi, arabeschi e geometrie accatastate. Tutto appare stratificato e caotico. Siamo di fronte a un enorme gomitolo di luce, sofisticato e complesso. Poi, cambiando il punto di visione, l’installazione appare cangiante, allungata, radicalmente diversa, come una nuvola luminosa, splendente, ammaliante, ricolma — ancora — di luci che s’intrecciano riportandoci in uno spazio e in un tempo sospesi: quelli delle luminarie delle feste nei borghi del Sud dove anche d’ estate è Natale. Un’enorme scultura di luce che emoziona, diverte e, appunto, fa dire sorridendo: «Un Fontana impazzito». Appunto.
Cerith Wyn Evans (1958) è presente a Milano con ...the Illuminating Gas, la sua personale più vasta mai realizzata (curata da Roberta Tenconi e Vicente Todolí) e concepita come una partitura musicale, in cui forma, luce e suono diventano pura energia offrendo ai visitatori un’esperienza inaspettata, a suo modo unica. Venticinque opere a comporre (con la complicità speciale degli spazi dell’Hangar) una sorta di tempio di vetro e luce: Cerith Wyn Evans dichiara così il suo percorso, la sua lunga e articolata storia che, da giovane, lo vedeva in azione nel cinema sperimentale indipendente e che solo dal 1994 lo ha visto orientato verso le arti plastiche.
A testimoniare questo passaggio, una piccola opera collocata all’uscita d’emergenza (va dunque cercata) che simbolicamente segna la sua trasformazione professionale e, allo stesso tempo, l’impianto filosofico del suo lavoro: si tratta di TIX3, una scultura in cui si vede un neon verde con «EXIT» scritto al contrario. Ma che cosa significa? Tutto nasce da una storia personale: durante la visione di un film a Londra, Evans abbandona la proiezione e, cercando di uscire dalla porta di emergenza, si ritrova in una piccola stanza senza uscita. Intrappolato in questo spazio, vive un’esperienza straniante nella quale si trova di fronte a tre livelli sovrapposti di percezione della realtà: vede il segnale dell’uscita, «EXIT», il suo riflesso che appare al contrario (ed ecco TIX3), infine, l’audio proveniente dalla sala e l’immagine proiettata sullo schermo, visibile dalla porta di vetro.
È lo stesso artista a spiegare il senso dell’opera: «Questo lavoro ha a che fare con l’essere in un luogo dove non dovresti stare. Rappresenta lo spazio osservato al di sopra delle proprie spalle, come è accaduto alla moglie di Lot, trasformata in una colonna di sale per essersi girata a guardare Sodoma e Gomorra; è l’idea di qualcosa che abitualmente non vedi perché non rientra nel tuo raggio d’interesse». Questo lavoro, dunque, chiarisce la linea di confine tra Evans regista e Evans artista visivo, anche se per lui le distinzioni sembrano non valere: tutta la sua ricerca si basa, infatti, sul concetto di percezione, sul tempo, sulla luce, sul rapporto con lo spazio.
Wyn Evans attinge a una complessità di riferimenti e citazioni (letteratura, musica, filosofia, fotografia, poesia, storia dell’arte, astronomia e scienze dure), usando «materiali testuali» per poi tradurli in linguaggi luminosi: come le scritte al neon (una enorme è presente nel Cubo, lo spazio che conclude la mostra dell’HangarBicocca) oppure le pulsazioni in codice Morse o ancora i diagrammi che evocano i movimenti degli attori nel teatro giapponese No. Proprio questa è la formula che regola l’apparente caos dell’opera della navata centrale e che si rivela inaspettatamente non frutto di una spericolata visione creativa ma al contrario risultato di un calcolo rigoroso, quasi maniacale: l’opera, infatti, riproduce i diagrammi che rappresentano i movimenti degli attori del teatro tradizionale giapponese (all’inizio del percorso, invece, sono ricreati anche i segni di una celebre opera di Duchamp che, di fatto, ha ispirato il titolo della mostra).
Con Wyn Evans tutto diventa forma e luce. E tutto risponde a un senso. L’artista gallese — uomo colto, un po’ dandy e senz’altro dotato di provocatoria ironia — «mette in luce» il potere dell’arte e la sua capacità di creare legami tra significati differenti, inaspettati, forse impossibili, liberando nuovi immaginari con un linguaggio al confine tra materiale e immateriale: «Si tratta di uno spazio per la meditazione, di un luogo dove abbandonarsi alla contemplazione della trasmissione di energia», sottolinea.
Ed è quanto si coglie già all’entrata, con le sette enormi colonne pulsanti di vetro realizzate appositamente perl amostra di Milano: Star Star Star/Steer(totransversephoton) del 2019 chef annoda mistico contrappunto all’ installazione permanente, cioè i Sette palazzi celesti di Kiefer, celati oltre le tende nere, ma sempre silenziosamente presenti. Ed è anche quanto si comprende uscendo dal Cubo dovesi trova proprio l’ installazione
C=O=N=S=T=E=L=L=A=T=I=O=N (I call
your image to mind) del 2010, una scultura «mobile e polifonica» realizzata con 16 dischi riflettenti che ruotano lentamente e trasmettono montaggi sonori assemblati dall’artista. Ancora una volta, dunque, siamo alla presenza di un mondo di rifrazioni, sovrapposizioni e rivelazioni che offrono al visitatore un’occasione per guardarsi, per ascoltare, per riflettere sul senso della percezione.
Uscendo dal Cubo, davanti alla grande opera della navata si manifesta un enorme, potente, indecifrabile groviglio, un nodo inestricabile di luce. E allora affiorano alla mente le parole salvifiche di Shakespeare, che ne La dodicesima notte scrive: «Oh, tempo, tocca a te sciogliere questo groviglio, non a me».