Corriere della Sera - La Lettura
Salieri e Mozart come padre e figlio (anche dal vero)
Andrei Konchalovsky porta in scena, al Teatro Quirino di Roma, «Amadeus» del drammaturgo Peter Shaffer: è la storia — molto liberamente adattata — di una rivalità, di una gelosia, forse anche di un odio feroce tra un presunto mediocre e un autentico genio. Sul palco Geppy Gleijeses (Salieri) e suo figlio Lorenzo Gleijeses (Mozart), che alla fine muore tra le braccia del compositore italiano chiamandolo «papà». Confronto (un po’ psicoanalitico) tra il regista e i due attori
Amadeus è la storia di una feroce gelosia. Pièce teatrale scritta dal drammaturgo inglese Peter Shaffer (1926-2016), liberamente ispirata alla vita di Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791), da oltre quarant’anni viene rappresentata con successo sui più prestigiosi palcoscenici internazionali firmata da grandi registi (come Roman Polanski) e portata sul grande schermo (per esempio da Miloš Forman).
Ora un altro grande regista, Andrei Konchalovsky — che ha recentemente presentato il suo ultimo film, Il peccato, su Michelangelo alla Festa del Cinema di Roma e che è in scena al Teatro Eliseo con Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman — la riporta alla ribalta: lo spettacolo debutta al Teatro Quirino di Roma il 19 novembre, con protag on istiGeppy Gleijeses nel ruolo di Salieri e suo figlio Lorenzo Gleijeses in quello di Amadeus. Il testo originale, qui tradotto da Masolino D’amico, nasce da un microdramma di Aleksandr Puškin, ambientato alla fine del Settecento, e racconta il presunto tentativo, senza fondamento storico, del compositore italiano Antonio Salieri di distruggere la reputazione dell’odiato avversario Mozart e di averne provocato la morte con l’arsenico.
ANDREI KONCHALOVSKY — La rivalità tra i due personaggi è una leggenda del tutto inventata, ma è bella perché crea il contrasto, dunque dà luogo all’azione scenica. Il dramma di Shaffer, che è stato variamente interpretato, non nasce a mio avviso da una masturbazione intellettuale dell’autore, piuttosto è un viaggio nella profondità della natura umana, una sorta di seduta psicoanalitica tra le pieghe della seduzione che il male può esercitare su ogni individuo.
Chi è dunque Salieri?
ANDREI KONCHALOVSKY — È certamente un tipo intelligente, anche furbo, sa muoversi a Corte, sa raccontare bugie, è socialmente molto integrato. Scavando però nel suo intimo, è in realtà una vittima del destino. Si sente tradito dal Dio della religione in cui crede, al quale aveva promesso una vita integerrima, intemerata, per ottenere in cambio il dono del talento, quindi dell’eccellenza artistica in campo musicale. E invece scopre nel giovane salisburghese il genio che vorrebbe essere, di fronte al quale si sente disarmato. Per questo, al contrario del bellissimo film di Forman — dove questo personaggio viene considerato un uomo odioso, perfido, e viene esaltata la purezza dell’altro — a me Salieri è molto simpatico. La sua vendetta finale non è contro Amadeus, bensì contro Dio che si è fatto beffe di lui.
GEPPY GLEIJESES — Sono d’accordo: Salieri, al contrario di ciò che si pensa comunemente, tutto sommato è un buono, trascinato dalle circostanze della vita e dalla necessità, in quanto musicista, di sopravvivere nella memoria degli uomini. Però è disperato e la disperazione può giocare brutti scherzi. Quando vede Amadeus tracciare sullo spartito, senza pensarci e senza fatica, degli sgorbi che, senza una correzione, si tramutano in capolavori, mentre lui riesce solo a partorire meditati ghirigori che risultano poi senza senso, si rivolta
contro Dio con rabbia, dicendo «non sono un fantoccio, io sono un artista!». E quando il rivale, il genio, disteso sul letto nei suoi ultimi spasimi di vitalità, gli detta il Requiem, viene colto da un attacco di follia perché è in grado di riconoscerne la perfezione, ovvero l’incarnazione di Dio. Allora ne invoca la morte: ti prego muori e lasciami in pace! Insomma, Salieri a modo suo ama e ammira Mozart, ma per lui rappresenta un pericolo costante ed è costretto ad annientarlo. LORENZO GLEIJESES — Per me il compositore veronese incarna il potere dei vecchi che, invece di dare spazio alle potenzialità delle nuove generazioni, affinché producano i frutti migliori tirando fuori le ali e spiccando il volo, fanno di tutto per osteggiare o, nel migliore dei casi, banalizzare il talento dei giovani. Perché? Perché i giovani rappresentano un disturbo dell’establishment. Ed è quello che avviene tuttora, in questo mondo gerontocratico, governato dagli anziani...».
C’è qualcuno in grado di spostarli dalle loro convinzioni? Qualcuno in grado di cambiare il corso della storia? LORENZO GLEIJESES — Mi viene in mente l’esempio di Greta Thunberg, una ragazza che combatte in prima persona, con coraggio e determinazione, una battaglia sacrosanta per tutti noi e che, proprio dai vecchi, è stata sbeffeggiata, infamata. Io mi commuovo di fronte a storie di ragazzi che, messi in ridicolo, vengono di fatto ammazzati, sia pure simbolicamente, perché non viene permesso loro di esprimersi. Mozart, a sua volta, è vittima della sua genialità? ANDREI KONCHALOVSKY — È incapace di fare del male e perciò dobbiamo amarlo. Non è mai violento e, anche quando gli scatta una reazione di collera, non è in grado di portarla a termine, ma ricade su di lui in forma di disperazione. Ma Amadeus innanzitutto rappresenta un mito, avvalorato dal fatto che è morto a soli 34 anni e si è consacrato in quanto tale: in certi casi è necessario morire giovani per consolidare la leggenda. Salieri quando è morto aveva quasi 75 anni. GEPPY GLEIJESES — Mozart ha un’indole debole, somiglia a una farfalla innocente che vola leggera tra i rovi della cattiveria umana... mi fa venire in mente L’idiota di Dostoevskij.
LORENZO GLEIJESES — Sì, è un animo ingenuo, sensibile, primitivo; e per questo a volte anche rigido nelle convinzioni. In fondo, è prigioniero del fatto di rappresentare, suo malgrado, un autentico fenomeno di cui forse non è nemmeno consapevole... uno scherzo della natura. Se fosse vissuto più a lungo, chissà quanti altri capolavori avrebbe potuto regalarci.
Una storia di feroce gelosia. L’invidia può giocare brutti scherzi? ANDREI KONCHALOVSKY — Certo, anch’io l’ho provata per il successo riscosso da qualche collega. Chi non prova invida è un pazzo, non è normale! Anche Michelangelo la provava per Leonardo. Ma non è un sentimento del tutto negativo, anzi: può essere uno stimolo a migliorarsi. GEPPY GLEIJESES — Sono stato invidioso, lo ammetto. Soprattutto di quei colleghi che, pur non essendo molto talentuosi, sono riusciti a ottenere spazi di rilievo grazie alle giuste amicizie in certi ambienti. Tuttavia non ho mai nutrito sentimenti di vendetta, per abbattere il nemico. E sono d’accordo con Andrei: l’invidia sollecita l’ambizione a fare e a dare il meglio di sé. LORENZO GLEIJESES — Mi credete se affermo che non soffro di invidia? Capisco che può costituire uno sprone a crescere in qualità, il confronto con gli altri è inevitabile e sono molto attento ai miei omologhi, però sono indotto a pensare: se è capace di farlo lui, lo posso fare anch’io; e provo ad arricchire il mio bagaglio d’esperienza. Forse la mia è soltanto presunzione.
Nella scena finale, Salieri tenta di uccidersi, ma viene salvato dai suoi servitori. E rivolgendosi al pubblico pronuncia una frase che suona come un epitaffio: «Mediocri di tutto il mondo, ora e sempre, vi assolvo tutti. Amen». È giusto assolvere i mediocri?
ANDREI KONCHALOVSKY — È un’immagine poetica. Sono convinto che tutti abbiano un qualche talento e che in giro non ci siano persone completamente mediocri. L’importante è individuare l’arte o la disciplina in cui si riesce meglio e insistere su quella, senza cimentarsi in attività dove non si è in grado di eccellere. Alla fine della rappresentazione di questa vicenda, non intendo dare alcuna soluzione, vorrei soltanto che il pubblico facesse le sue riflessioni tirando le proprie conclusioni... prendendo le parti di Salieri oppure di Mozart. LORENZO GLEIJESES — La mediocrità si può trasformare in cattiveria sterile, che danneggia solo sé stessi, perché ti fa rodere il fegato e ti fa ammalare. GEPPY GLEIJESES — È difficile ammettere
la propria mediocrità. Salieri è il santo patrono di tutti i mediocri e sono d’accordo con lui: è giusto assolverli.
Konchalovsky ha un fratello altrettanto famoso, Nikita Michalkov, con cui ha lavorato. Geppy e Lorenzo sono padre e figlio...
Co mesi convive tra parenti stretti? ANDREI KONCHALOVSKY — Nikita ha quasi dieci anni meno di me e sono convinto che faccia il regista proprio a causa mia. Sentiva l’influenza del fratello maggiore? ANDREI KONCHA
LOVSKY — Penso proprio di sì, pur essendo tuttavia molto autonomo... Per esempio, non mi faceva leggere la sceneggiatura di un film a cui stava lavorando, perché aveva paura che gli dicessi che non fosse buona, temeva il mio giudizio (ride, ndr). Comunque abbiamo lavorato bene insieme, tra noi c’è una simbiosi inevitabile: ha fatto l’attore in alcuni miei film,
Nido di nobili, Siberiade... Ma lui è più complicato di me e abbiamo idee opposte riguardo a certe cose. Io penso che il linguaggio cinematografico sia il contrario di quello teatrale, non c’è relazione: il cinema, fatto soprattutto di immagini, può essere proposto anche a chi è sordo; il teatro, che è fatto di parole, di energia e materia fisica, può andare bene anche per i ciechi. E poi mentre il cinema si può fare con gente presa per strada, il teatro va affidato a persone capaci, a professionisti. Per Nikita, non c’è grande differenza e fa teatro un po’ come fa cinema, utilizzando pure gli effetti speciali... Il teatro per me è una grande bugia in continua evoluzione, alla quale il pubblico deve credere ogni sera. Come scriveva Eduardo De Filippo, è una grande magia.
GEPPY GLEIJESES — Lorenzo ha iniziato a recitare al mio fianco da bambino in Liolà di Pirandello. La parentela non ci ha mai condizionato e, per come è cresciuto bene, sono grato a sua madre che purtroppo non c’è più ma lo ha tirato su nel migliore dei modi. È un ragazzo d’oro, pur non avendo un carattere facile, ma — come diceva Peppino De filippo, a questo punto cito anch’io un De filippo — chi ha carattere, ha un cattivo carattere.
LORENZO GLEIJESES — È vero, sono fumantino e con papà in scena spesso è una gara tra noi, che non risparmia sgambetti reciproci... ma lo facciamo per rendere il lavoro più vivo, per divertirci, andare in tournée con lui è una festa e devo ammettere che lui è più disposto al gioco, è più giovane di me. Io, sotto certi aspetti, sono più arido: prima di andare in scena mi chiudo in camerino e non voglio vedere, né parlare con nessuno. Lui è capace di vedersi una partita della squadra del cuore, insieme agli altri colleghi teatranti, fino a un momento prima di aprire il sipario e andare in scena.
Insomma un’unione perfetta? Mai uno screzio? Difficile immaginare tanta armonia tra padre e figlio... LORENZO GLEIJESES — Bè... qualche volta è difficile smuoverlo da certe sue convinzioni. È molto, troppo sicuro; inoltre, se gli prospetti le difficoltà a seguire la sua strada oppure gli mostri aspetti differenti, non è facile convincerlo. In questi casi, la tattica è quella di riproporgli il problema due, tre volte e poi... magari ci riflette e cambia idea. L’importante è non prenderlo di petto.
GEPPY GLEIJESES — Sul palco sono un padre che mantiene un diaframma e non solo con mio figlio, anche con gli altri: io sono il capocomico e devo avere la libertà di dire ciò che penso. Non con autorità, con autorevolezza. La cosa curiosa è che, in Amadeus, Mozart muore tra le braccia di Salieri, chiamandolo papà: in questa scena, lo ammetto, si supera il rapporto tra attori e sfruttiamo la circostanza di essere realmente padre e figlio. Il teatro è finzione, ma tra palcoscenico e vita c’è un filo rosso e, se solo per un attimo dovessi pensare che il mio vero figlio mi muore tra le braccia, è chiaro che cambierei mestiere».