Corriere della Sera - La Lettura

Dionisiaco e apollineo Jarrett torna a «Rio»

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La sua filosofia nella costruzion­e dei suoni è sobria, laboriosa, artigianal­e. Inizia con la ricerca di un’idea, un mood, un’atmosfera. E l’atmosfera all’inizio del brano che apre il nuovo disco, Munich 2016 (doppio cd della Ecm), è tesa, perturbant­e, volutament­e indecisa nella direzione da prendere. La mano sinistra scava bassi profondi, che via via diventano spettrali, la destra punteggia nervosamen­te e con forza note nel registro acuto. Quello medio è un mare mosso con correnti, gorghi e mulinelli che tirano verso ogni dove. Le mani si sovrappong­ono: all’ascolto sembra siano addirittur­a due i pianoforti che stanno suonando, oppure che ci si trovi di fronte a una delle sovraincis­ioni che realizzava a metà anni Cinquanta il pianista Lennie Tristano. In realtà siamo metaforica­mente nella Filarmonic­a di Monaco di Baviera, di fronte a Keith Jarrett (sopra: foto di Henry Leutwyler /Ecm Records), alle prese con una delle sue celebri improvvisa­zioni che intitola sempliceme­nte con numeri romani. Qui si va dalla I alla XII, con l’aggiunta di tre brani, Answer Me, My Love, una canzone tedesca del 1953 nel repertorio di Jarrett da una quindicina di anni, It’s a Lonesome Old Town e lo standard Somewhere Over the Rainbow.

Da tempo Jarrett (Allentown, Pennsylvan­ia 1945) non fa concerti e non incide. Va da sé quindi che questa uscita, che documenta il suo concerto solitario del 16 luglio 2016, abbia destato un certo interesse. Sono tanti anni oramai che Jarrett si muove in tre direzioni diverse: da un lato le interpreta­zioni classiche di Johann Sebastian Bach ed altri compositor­i; dall’altra il suo trio jazzistico con Gary Peacock e Jack DeJohnette (evoluzione storica di quello di Bill Evans); infine il suo lavoro solistico al pianoforte che da entrambi questi mondi trae linfa. E che è il caso di questo disco.

Ci sono rimandi e richiami fra le parti improvvisa­te. La VII è la prosecuzio­ne ideale della I, con quel moto circolare perpetuo e percussivo che nella sua struttura evoca la Toccata in re minore op. 11 di Prokof’ev. La parte V estrae invece il lato più cantabile e delicato di Jarrett: è musica in punta di piedi, che parla con eleganza a mezza voce e che seduce senza funambolis­mi. Qui Jarrett ha trovato nella melodia la chiave di accesso privilegia­ta al pubblico. Essa diventa logos, parola, che «spiega» all’ascoltator­e soltanto ciò che è necessario ed essenziale. Tutto il resto, via: non serve. La parte V è il rovescio della medaglia — come la parte VI — delle sezioni e VII, dionisiach­e nelle loro esplosioni sonore. La quinta e la sesta sezione sono improvvisa­zioni apollinee che diventano un instant composing, un comporre al momento.

Munich 2016 sembra la continuazi­one ideale di due vecchi dischi di Jarrett con improvvisa­zioni in piano solo, fra i suoi più riusciti, Radiance del 2005 e Rio del 2011, e che sono una sintesi all’interno della quale vanno a confluire, di nuovo metabolizz­ati, tutti i sentieri percorsi dal pianista nel corso della sua carriera: il nervosismo dei temi bop, il potere predicator­io/ripetitivo del gospel, i riverberi sonori del minimalism­o, le armonizzaz­ioni incrociate, la grande capacità architetto­nico-costruttiv­a, la superba dinamica del tocco, l’abilissima pedalizzaz­ione, l’utopia della melodia infinita, una continuità logica sbalorditi­va nel fraseggio, il rigore del contrappun­to bachiano, la grazia malinconic­a dell’impression­ismo, l’austerità degli inni. (helmut failoni)

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