Corriere della Sera - La Lettura

Coraggio ragazzi, ditemi: per cosa dareste la vita?

- Di IDA BOZZI con interviste di MICHELANGE­LO BORRILLO, MARIA EGIZIA FIASCHETTI, CAMILLA GARGIONI, GIAMPIERO ROSSI

Proprio così. C’è un posto, in Europa, che non è Unione Europea e che sogna di esserlo. Il regista di Sarajevo Haris Pašovic racconta i desideri di giovani bosniaci, croati, serbi e porta in scena le utopie di Bobby Sands e i deliri jihadisti. Nelle pagine successive abbiamo chiesto agli alunni di quattro scuole italiane per cosa sarebbero disposti a morire

Torna il 6 dicembre a Sarajevo, sul «luogo del delitto», lo spettacolo del regista bosniaco Haris Pašovic — Per che cosa daresti la vita? («What Would You Give Your Life For?») — che da tre anni gira l’Europa (nel 2018 è stato rappresent­ato anche al Mittelfest di Cividale del Friuli, di cui Pašovic è direttore). È interpreta­to da attori giovani, tra i 22 e i 25 anni, una generazion­e nata negli ultimi anni del conflitto balcanico o subito dopo, che non conosce il sangue ma vive in una società che proprio da quel sangue è nata, e proviene da Paesi che sono stati nemici: Bosnia, Serbia, Croazia.

«L’idea era fare incontrare giovani attori della Bosnia ed Erzegovina e della Serbia — racconta Pašovic a “la Lettura” — e di farli lavorare insieme. Tutto è cominciato in Serbia, dove avevo tenuto una conferenza ai miei allievi, e ho chiesto loro per che cosa avrebbero dato la vita. Questa domanda li ha scioccati, perché la nuova generazion­e non ne ha mai parlato. Così abbiamo cominciato a lavorare al progetto: portare in scena personaggi che avevano dedicato la loro vita (o l’avevano sacrificat­a) a qualcosa. La mia generazion­e, sì, è più vicina all’idea, ma questi ragazzi erano sconvolti perfino a pensare di poter dare la loro vita per qualcosa».

Il lavoro di ricerca per lo spettacolo è cominciato indagando esempi nel Novecento e nel XXI secolo, lavorando su figure positive ma anche negative. «Abbiamo iniziato dall’ovvio, cioè i jihadisti, giovani che diventano terroristi e iniziano a uccidere innocenti, nelle strade, nei ristoranti, suicidando­si, facendosi esplodere. Così inizia lo spettacolo. Poi continua portando in scena le Tigri tamil in Sri Lanka, che hanno inventato il suicide bombing e il suicidio delle donne kamikaze, e i piloti kamikaze giapponesi. Ma ci sono stati molti che hanno dato la vita per un’idea nobile, per la libertà: ecco i combattent­i della Guerra civile spagnola, i partigiani, chi ha lottato contro l’apartheid, chi ha combattuto i regimi comunisti, come Jan Palach che si è dato fuoco, e tanti altri. È una ricerca: per parlare della storia nordirland­ese, che i ragazzi non conoscono, leggiamo documenti storici, guardiamo insieme film, ascoltiamo musica, su Google cerchiamo Bobby Sands, tentiamo di capire qual era il problema».

C’è una buona notizia — continua

Pašovic — intorno a questa nuova generazion­e: «Sono interessat­i al mondo, ai valori, all’etica; non gli importa solo di Instagram, anche se sono una nuova generazion­e, tutta ritmo, energia, desiderio. Ho detto che vengono da nazioni diverse, ma aggiungo che sono nati dopo la guerra, sono la prima generazion­e postbellic­a».

E appartengo­no a popoli che negli anni della guerra nella ex-Jugoslavia, tra il 1991 e il 2001, erano nemici. «All’inizio non erano entusiasti di incontrare giovani delle altre nazioni, perché a scuola non avevano studiato nulla su ciò che è stata la Jugoslavia. Nei Paesi da cui provengono — Bosnia ed Erzegovina, Serbia, Croazia — ci sono programmi scolastici molto specifici in cui si studia solo la storia della propria nazione. Quando si sono incontrati e hanno cominciato a lavorare insieme, quando i giovani serbi hanno incontrato quelli che arrivavano dalla Bosnia, se ne sono innamorati. Era davvero bello da guardare: erano felici di scoprire di avere la stessa cultura, la stessa mentalità, lo stesso cibo, più qualche differenza che rendeva le cose ancora più interessan­ti. La mia sensazione era che avessero scoperto i gemelli di cui non conoscevan­o l’esistenza. E la sensazione continua: sono così eccitati quando portiamo lo show in tour in Europa, quando arriviamo in Italia e in tutti gli altri Paesi, sono contenti di lavorare insieme e lo fanno da più di due anni. Mi sembra che la gente voglia stare insieme, e che sia la politica a volerla dividere».

Stupefacen­te, semmai, per i giovani attori di Pašovic, è la guerra che ha coinvolto i genitori. «Per loro è un grande enigma: i loro genitori dicono che la vita era meglio nella vecchia Jugoslavia, così non capiscono perché ci sia stata la guerra, se la vita in Jugoslavia era così bella. In effetti, credo che nessuno riesca a capirlo. Perché la Jugoslavia, nazione tra le più sviluppate dell’area, è finita in un conflitto così orribile? Va chiesto alla gente che viveva là, ma anche all’Europa, agli Stati Uniti, alla Russia e agli altri giocatori sullo scacchiere dei Balcani. In Jugoslavia prima tutti avevano un lavoro; ora in quei

Paesi molta gente non ce l’ha. Per la maggior parte della gente la vita qui non è facile»

E poi ci sono i sogni, gli ideali. «Molti vogliono andarsene, vogliono andare in Europa, in Germania. Ho paura che il costante rinvio, da parte dell’Unione Europea, dell’ammissione di tutte queste nazioni nella Ue possa provocare un guaio davvero grosso. Anche perché dà spazio a Russia, Arabia Saudita, Cina, Turchia, per piazzare i loro interessi nell’ex-Jugoslavia. C’è una sensazione cattiva in giro: il francese Macron ha detto che la Bosnia è una bomba a orologeria, e non è vero, non c’è mai stato un terrorismo bosniaco; anche la presidente croata Kolinda Grabar-Kitarovic spinge sul tasto dei musulmani bosniaci; l’Accademia svedese ha dato il Nobel a Peter Handke che ha negato il genocidio dei musulmani. Tutto ciò dà una cattiva sensazione. Invece la gente nei Balcani si sente europea, noi siamo europei: è come se nostra madre ci rifiutasse. È male per i Balcani, ma non credo sia un bene nemmeno per l’Europa».

Invece in Europa l’euroscetti­cismo è fenomeno diffuso, fino alla rottura: la Brexit. «Sì, e penso al nazionalis­mo in Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca. Chi avrebbe pensato, anni fa, che la Brexit sarebbe accaduta in modo così drammatico? Ma io non sono un politico, sono un artista; quello che posso fare è creare le circostanz­e per unire le persone e per pensare al mondo in modo complesso. Non puoi parlare di tutto solo in termini di mi piace o non mi piace. Il nostro lavoro è portare questa complessit­à al pubblico. Lo faceva la tragedia antica: Eschilo ha scritto I persiani più di 2.500 anni fa: uomini che simpatizza­no con i nemici appena sconfitti. È una grande idea umanistica, che non abbiamo più, non abbiamo più empatia ». Proprio l’empatia con Carola Rackete, manifestat­a da Pašovic in luglio, diede origine a una polemica con il governator­e leghista del Friuli-Venezia Giulia, Massimilia­no Fedriga. «Per inciso, l’empatia — conclude Haris Pašovic — sarà il tema del Mittelfest 2020. Ma con lo spettacolo mettiamo insieme tutte queste cose e le portiamo a tutti, in Bosnia, in Serbia... E in scena proprio non puoi dire chi tra i ragazzi sia bosniaco, chi croato e chi serbo».

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