Corriere della Sera - La Lettura
L’arte di Lucian Freud analizzata dalla figlia
La Royal Academy di Londra dedica una meravigliosa retrospettiva agli autoritratti di uno dei massimi maestri del realismo contemporaneo, nipote del padre della psicoanalisi, dalle quotazioni vertiginose e dalla vita sentimentale turbolenta (due mogli, 500 amanti, 14 figli ufficiali e 40 ufficiosi). Abbiamo chiesto alla figlia Jane, scultrice e artista lei stessa, di vedere la mostra con «la Lettura». Ok — ha risposto — ma prima do un’occhiata da sola, se non vi dispiace
Che cosa cerca Jane negli occhi di Lucian? Quale idea di ispirazione può inseguire un’artista già affermata nello sguardo di uno dei massimi maestri del realismo contemporaneo? Quanto una figlia vorrebbe ritrovare del padre in un piccolo — incredibile — autoritratto con il genitore nelle vesti di un Atteone (bellissimo giovane trasformato da Artemide in cervo solo per averla sorpresa al bagno) in versione British-pop?
Certo non deve essere facile per Jane McAdam Freud («Scultore concettuale britannico le cui opere sono focalizzate e ispirate alla teoria psicoanalitica» si definisce) affrontare per cinquanta e più volte l’ombra di un padre così ingombrante nella mostra Lucian Freud: The Self-portraits, uno dei grandi appuntamenti della Royal Academy di Londra per il 2019-2020 (curata da Jasper Sharp e David Dawson, l’esposizione rimarrà aperta fino al 26 gennaio), capace di attirare sin da subito a Burlington House, a Piccadilly, sede dell’Academy, un massiccio numero di visitatori, molto più dei contemporanei Antony Gormley, Eco-Visionaries e Laura Knight.
Ma Jane non ha paura. E accetta la sfida de «la Lettura»: «Appuntamento giovedì alle tre nella hall e vediamo la mostra insieme. Ho letto l’elenco delle opere, mi sembra interessante». A una condizione, però: «Darò un’occhiata anche da sola, prima». Quasi che Jane si volesse preparare bene a questo corpo-a-corpo con quel padre che, dopo la separazione tra i genitori avvenuta quando aveva appena 8 anni, non avrebbe più visto per 23 anni, mentre ogni legame con la figura paterna le veniva negato dalla madre Katherine McAdam, che fa letteralmente eliminare il cognome Freud dai nomi dei suoi quattro figli. Una ferita che si rimarginerà (almeno parzialmente) nel 1991 a Londra quando a Jane-scultrice viene assegnato un premio. Si incontrano a cena — non mangerà niente o quasi, confesserà Jane qualche anno più tardi — ma troveranno comunque una sorta di empatia tra artisti: Lucian confesserà di ammirare il lavoro di Jane e le chiederà di insegnargli a scolpire; Jane «conquisterà» il volto di Lucian disegnandolo, da sveglio e da addormentato, poco prima della sua morte, nell’estate 2011 (leggenda vuole che avesse lavorato fino all’ultimo giorno, il 20 luglio).
Più tardi, terminata la visita, Jane confesserà davanti a un caffè molto poco espresso: «Quando mio padre mi guardava mentre scolpivo, il mio primo istinto era sempre nascondere quello che stavo facendo». Ricordando quell’espressione scura e burbera dei tanti autoritratti in mostra, verrà così immediatamente da chiederle: suo padre non sorrideva mai? «Molto poco. Ma sapeva essere molto affascinante».
All’appuntamento Jane si presenta avvertendo via email di avere un nuovo taglio di capelli (corti). Un taglio che la fa assomigliare ancora di più al padre, tra i protagonisti in questi giorni anche della mostra Bacon, Freud. La scuola di Londra al Chiostro del Bramante di Roma (fino al 23 febbraio). Un padre che, secondo quanto raccontato da Vassilakis Takis, il grande scultore greco da poco scomparso che conosceva molto bene Lucian, avrebbe avuto due mogli, circa 500 amanti e 14 figli ufficiali (cifre ufficiose parlano addirittura di quaranta) tra cui, oltre a Jane, la stilista Bella Freud e le scrittrici Esther Freud e Susie Boyt. Una vita affettiva quantomeno turbolenta (Lucian era il secondo dei tre figli di Ernst, a sua volta secondogenito di Sigmund Freud, e quindi nipote del padre della psicoanalisi) alla maniera di un altro maestro della modernità come Picasso.
Jane si presenta nella hall della Royal Academy con un look molto informale: giacca a vento grigio-verde, maglione blu, pantaloni di velluto rosso, scarponcini. Indossa un grande sorriso e poi subito chiede: «Andiamo?». Sottovoce aggiunge un primo consiglio: «Attento agli occhi!». Oltrepassata la soglia della Jillian and Arthur M. Sackler Wing, Jane ribadisce quello che sarà il suo mantra per il visitatore perfetto: «Guardi gli occhi!». Perché? «Perché non vedrà mai un occhio uguale all’altro: uno sarà sbarrato, uno chiuso, l’altro semiaperto, un altro che le sembrerà addirittura senza palpebre. È come se mio padre cercasse in qualche modo di sfuggirle, come se non volesse che qualcuno entrasse attraverso gli occhi dentro di lui e dentro la sua anima».
Le oltre cinquanta opere — disegni a matita e inchiostro, schizzi, copertine, dipinti di grandi e piccole dimensioni — diventano così un atlante degli sguardi di Lucian, sguardi a cui Jane si avvicina a volte con timidezza, altre volte con durezza, sempre con interesse. Senza seguire il percorso indicato dal curatore, ma piuttosto quello dell’anima. Cominciando da uno degli autoritratti più conosciuti: Painter Working. Reflection (olio su tela del 1993) in cui Lucian appare nudo con una tavolozza in un mano e un pennello nell’altra che certifica la via imboccata dall’artista proprio quell’anno: «L’ultima cosa che posso fare è dipingermi nudo», disse (d’altra parte nessuno come lui è stato capace di spogliare ricchi
commercianti, aristocratici dai cognomi altisonanti ed esponenti della working class). «Qui è come se mio padre dirigesse un’orchestra per dimostrare tutta la sua forza. Ma sembra farlo con il corpo, non con lo sguardo. Non si riesce a capire dove stia davvero guardando. Ancora una volta sfugge». Con un tocco di ironia Jane aggiunge, quasi parlasse tra sé: «Non era così alto come poteva sembrare dai quadri, era appena poco più grande di me».
Dietro ognuno di quegli sguardi si nasconde una storia spesso affascinante. È il caso di Self-portrait with a Black Eye (olio su tela del 1978), dipinto ancora una volta piccolissimo nelle dimensioni (18,8 x 14,3 centimetri) prestato dalla collezione di Pinault: «Mio padre aveva litigato con un tassista, rimediando un pugno e un occhio nero, ma la prima reazione non è stata quella di andare a un pronto soccorso per farsi medicare, ma in studio per mettersi davanti a uno specchio e farsi l’autoritratto. Lo affascinava il cambiamento dei suoi tratti e del colore della sua pelle che quel cazzotto aveva provocato». Ancora una volta, questo autoritratto richiama alla classicità (tra gli antichi maestri citati da Freud ci sono Van Eyck, Rembrandt, Dürer, Schiele, Klimt oltre a Picasso e all’amico Bacon) e in particolare alle tavolette del Fayyum. E ancora una volta è uno sguardo imprendibile e sfuggente.
Con una passione e un’attenzione quasi da entomologa, nelle austere stanze della Royal Academy e nonostante la folla di visitatori, Jane cataloga e racconta quell’universo di occhi e di sguardi. Sono gli sguardi, carichi di sensualità, del giovane Lucian che di volta in volta si ritrarrà accanto a un vaso di giacinti, a un cardo, a una pianta di limoni, sotto un lampione di strada oppure a letto: ogni volta enigmatico, ogni volta diverso, ogni volta pronto a qualsiasi lettura o interpretazione. «Vede questo?», chiede Jane sottovoce indicando Startled Man, il ritratto dell’uomo spaventato del 1948. «È pieno di sensualità... ma più che spaventato direi che si stia masturbando». Tra i preferiti di Jane c’è anche uno dei primi capolavori riconosciuti di Freud: Hotel Bedroom (olio su tela del 1954), dipinto da Freud durante il suo periodo parigino, in una stanza dell’Hotel La Louisiane. In primo piano c’è la seconda moglie dell’artista, Lady Caroline Hamilton-Temple-Blackwood (erede dei Guinness), stesa sul letto, sullo sfondo c’è Lucian che Caroline avrebbe poco dopo lasciato, divorziando, per i troppi tradimenti: «Nello sguardo di mio padre c’è tutta l’ansia e la difficoltà di quella storia d’amore, ma c’è anche la tensione tra l’artista e la sua modella, tutto amplificato da quella stanza vuota e da quella facciata che compare sullo sfondo. Però ancora una volta lui sembra sfuggirci, nascondersi nell’oscurità, un po’ come faceva suo nonno Sigmund che ascoltava quello che raccontavano i pazienti stesi sul lettino seduto in disparte su una poltrona».
Con il tempo gli sguardi sembrano acquistare energia. Così accade per Reflection with two children del 1965 (che campeggia sulla copertina del catalogo della mostra), ennesimo intreccio di rughe che inizia e finisce dallo sguardo. Con un effetto — secondo una procedura molto frequente in Freud — che viene amplificato da uno specchio appoggiato sul pavimento (Freud amava dipingere stando in piedi): «Lo specchio gli serve per distrarre ancora di più la nostra attenzione, per impedirci di guardarlo davvero», chiarisce Jane. E lo specchio con il suo effetto-amplificatore compare anche in Hand mirror on chair (olio su tela del 1956), Interior with hand mirror (olio su tela del 1967), Small interior (olio su tela del 1972) «ma più che di specchi si tratta in verità di altri occhi». Poi ci sono gli sguardi del maestro già anziano, già diventato un simbolo dell’arte universale ( Self-por
trait del 1991, Reflection del 2002): la pittura è ora diventata sempre più materiale, piuttosto che di pennellate verrebbe quasi voglia di parlare di «colpi di scalpello», quasi si trattasse di una delle sculture di Jane. Ma anche qui sono sempre gli occhi a guidare tutto.
Nessuno dei visitatori della mostra sembra riconoscere Jane. Così, come accade a molti visitatori, più volte Jane torna a rivedere quegli autoritratti: «Questo mi piace molto — dice indicando un Self-portrait del 1974 della Ubs Art Collection — perché qui mio padre è quasi femminile, un elemento della sua personalità che come al solito cercava di nascondere». E poi ci sono gli innumerevoli sguardi spezzati, incompiuti (Freud era oltretutto famoso anche per i tempi lunghissimi, due-tre anni per una tela di medie dimensioni): grandi tavole bianche, una piccola porzione al centro già dipinta con il volto di Lucian presente perché «cominciava sempre dipingendo gli occhi e poi aggiungendo i successivi frammenti, quasi si trattasse di un mosaico». E altri frammenti degli sguardi di Freud sono quelli che si intravedono dietro le foglie di Interior with Plant (olio su tela del 1967) o sullo sfondo di Two Irishmen in W11
(olio su tela del 1985) dove alle spalle dei due protagonisti, sul muro sotto la finestra dello studio londinese di Freud, sbirciano due piccolissimi incompiuti ma con sguardi (di Lucian) già ben definiti.
Davanti a due grandi tele ( Naked Portrait with Reflec
tion, olio su tela del 1980 in cui compaiono solo i piedi di Freud, e Freddy Standing, olio su tela del 2001) Jane affronta un altro dei topoi della pittura di Freud: «Per lui un corpo nudo era molto più espressivo di un volto e raccontava molto di più della persona. Eppure non ha mai avuto paura di mostrarsi senza veli, anche quando era già vecchio». Dal nudo, spesso irriverente e mai edulcorato, arriva molta della celebrità di Freud: Benefi
ts Supervisor Resting (olio su tela del 1994) con i suoi 56.165.000 dollari in un’asta da Christie’s nel 2008 è oggi il quadro più pagato di Freud, seguito da un altro nudo ( Portrait on a White Cover, olio su tela del 2003) per il quale da Sotheby’s nel 2003 erano stati sborsati 29,8 milioni di dollari, mentre dello scorso marzo è la vendita di un piccolissimo ritratto del 1956 raffigurante Garech Brown, sedicenne cugino della seconda moglie di Freud (prezzo raggiunto: 7.616.276 dollari).
Alla fine della visita, Jane sembra soddisfatta: «La mostra mi è piaciuta, magari non avrei messo certi ritratti che non somigliano per niente a mio padre, ma quelle sono scelte del curatore». In quale di questi autoritratti Lucian Freud è più riconoscibile? Jane ci pensa su, poi sceglie: «Questo!». È il ritratto che apre il percorso. Peccato che non sia un’opera dipinta da Lucian Freud e che sia «solo» una fotografia, scattata nel 2006 nello studio londinese dell’artista da David Dawson, storico assistente di Freud e co-curatore della mostra londinese: c’è l’artista, vestito con una semplicissima tuta da lavoro bianca, con uno dei suoi pennelli in mano che si sta insaponando il viso come per radersi. Perché proprio questo? «Perché qui mio padre ha lo sguardo di un bambino. Chissà... forse era davvero così».
I nudi, certo; l’esibizione del corpo, naturalmente; i nascondimenti, anche; ma soprattutto gli occhi. «Guardate gli occhi — dice Jane McAdam Freud mentre percorre con “la Lettura” la mostra degli autoritratti del padre — Non vedrete mai un occhio uguale all’altro: uno sarà sbarrato, uno chiuso, uno nero perché ha fatto a cazzotti, l’altro semiaperto, un altro sembrerà senza palpebre. È come se mio padre cercasse di sfuggirci, come se non volesse che qualcuno oltrepassasse quegli occhi per entrare dentro di lui». In quale è più riconoscibile? «Qui». E indica una foto: inquadra Lucian mentre si insapona il viso con un pennello da pittore per radersi