Corriere della Sera - La Lettura
Gli scrittori raccontano la rabbia delle piazze
Ventitré morti, oltre duemila feriti, 5.629 arresti: le violenze dei giorni scorsi hanno lasciato sangue e dolore nel Paese sudamericano. Lo scrittore Ariel Dorfman accusa polizia e governo: «Ora però siamo pronti a seppellire davvero Pinochet»
Il Cile e le ombre del passato. Ariel Dorfman ne ha fatto il tema portante di romanzi, pièce, saggi. Le ha conosciute in carne e ossa, consigliere culturale di Salvador Allende costretto a fuggire al golpe militare del 1973. Le ha viste aleggiare dal suo esilio nordamericano. Ha cercato di afferrarle con Paulina, protagonista de La morte e la fanciulla (trasformato in film da Roman Polanski); di riconoscerle a teatro con Purgatorio (interpretato tra gli altri da Viggo Mortensen; entrambi i libri sono tradotti da Einaudi); di diradarle una volta per tutte con l’ultimo racconto, I fantasmi di Darwin, uscito in Italia a maggio per le edizioni Clichy. Poi, un mese fa, a Santiago e nel resto del Paese, è esplosa la protesta, e qualcosa si è smosso, perché Dorfman, 77 anni, a «la Lettura», dice: «Ora siamo pronti a seppellire davvero Pinochet e a imboccare la strada di una piena democrazia».
Questo suo slancio viene anche da una notizia recente: i principali partiti politici si sono accordati per riscrivere la Costituzione, che era ancora quella del regime militare. Ma perché non è stato fatto prima?
«Quando la Concertación (centrosinistra) prese il potere nel 1990, dopo 17 anni di dittatura, fu costretta ad accettare la fraudolenta Costituzione voluta da Pinochet nel 1980, che legava pesantemente le mani della nuova coalizione (“Tutto legato, legato bene”, diceva Pinochet citando Franco). Nonostante questi impedimenti, ci sono stati molti importanti passi avanti in questi anni (riduzione della povertà, accesso all’istruzione superiore per milioni di ragazzi, processi per violazione dei diritti umani). Ma non c’è stata la possibilità di contestare il modello economico neoliberista ereditato dalla dittatura, il che ha lasciato molti problemi irrisolti (pensioni, sanità, disuguaglianza crescente). Dal mio punto di vista, l’errore principale della Concertación è stato — nella paura di perdere il controllo della situazione e forse innescare un altro colpo di Stato — smobilitare la popolazione, trattarla da consumatori isolati. Come ha osservato mia moglie Angélica (con Ariel dal 1966, ndr), c’è stata anche avidità e brama di potere da parte di troppi politici del centrosinistra, preoccupati di non “agitare le acque”. Ma il sogno di giustizia, la rabbia per corruzione e negligenza non sono morti, finché, alla fine, sono esplose le proteste che hanno costretto le élite al potere, di entrambi gli schieramenti, a creare un percorso senza precedenti per una nuova Costituzione. È uno sviluppo che fa ben sperare nel mondo polarizzato in cui viviamo oggi quasi ovunque».
Eppure ci sono in Cile ancora molti segnali di un’incompiuta transizione alla democrazia…
«Adesso siamo pronti a compiere questa transizione. La nuova Costituzione non sarà approvata e non entrerà in vigore prima di un anno e mezzo almeno. Nel frattempo bisognerà ascoltare la voce di chi è rimasto indietro e dare risposta ai bisogni più urgenti. Ignorarli significa rischiare il disastro. Spero che la pressione non ceda. Ma senza i saccheggi e le devastazioni che hanno accompagnato le manifestazioni per lo più pacifiche».
In una lettera aperta firmata da 700 intellettuali, lei ha denunciato la violenza estrema con cui ha reagito la polizia: 23 morti, 5.629 arresti, oltre duemila feriti per lo più colpiti al volto, agli occhi; 283 sono le denunce contro i carabineros per tortura e stupro. Un bollettino da anni Settanta…
«È vero, non vedevamo nulla di simile dagli anni della dittatura, la prova che quest’odio contro la popolazione che protesta legittimamente non è stato abolito, solo soppresso, in attesa di riaffiorare. Particolarmente preoccupante è l’intento deliberato di accecare i ragazzi: cavare gli occhi che hanno osato vedere la corruzione e l’ingiustizia. Ma il vero cieco è chi governa in Cile e non ha saputo capire che stavolta la violenza non sarebbe stata tollerata».
Colpisce l’audio «rubato» al capo delle forze di polizia, Mario Rozas, che garantiva ai suoi uomini «appoggio totale» e «nessun procedimento, neanche se mi obbligassero». Una promessa di impunità?
«Non pretendo di essere un profeta, ma penso che quando questa nostra intervista sarà pubblicata Rozas non sarà più al suo posto. E dovrebbe essere processato lui stesso».
Il presidente Sebastián Piñera, in effetti, ha appena condannato «l’uso eccessivo della forza» e ha garantito: «Non ci sarà impunità». Gli crede?
«Sono parole vuote finché non portano a un concreto cambiamento di politica: molti nell’esecutivo Piñera sono loro stessi responsabili di questi eccessi. Dovrebbero dimettersi. E molti dei suoi sostenitori hanno goduto di impunità in azioni recenti o del passato. Dovrebbero essere perseguiti. O dovrebbero restituire i proventi illeciti al Tesoro. Quanto lontano andrà Piñera dipende dalla gente. Credo che non si faranno stordire da parole vacue e chiederanno di dimostrare che il Cile non è più il Paese in cui vige una legge per i ricchi e i privilegiati e un’altra per chi non ha potere. Se il movimento è sufficientemente forte, Piñera sarà costretto a prendere alcune misure reali, e non meramente simboliche».
Un altro audio «rubato» sembra far capire bene questi due mondi cileni. «Saremo costretti a rinunciare ad alcuni dei nostri privilegi», si lamenta la moglie di Piñera...
«È comunque una piccola vittoria che qualcuno come lei riconosca questa necessità, ma non credo che sarà pronta a farlo finché — come il protagonista del mio I fantasmi di
Darwin — si troverà in una situazione in cui capirà che i suoi vantaggi sono stati creati sulle spalle di chi ha sofferto. Finché non entrerà in sintonia con i milioni che hanno scarse cure mediche, limitate opportunità di studi, nessun parco per i bambini, nessuna garanzia di una vecchiaia dignitosa, non cambierà».
Perché Piñera non si è dimesso nonostante le pressioni della piazza?
«Io sono profondamente in disaccordo con il presidente, ma chiedere che rinunci è pericoloso. Abbiamo combattuto duramente e pagato un prezzo terribile in morti e torture per avere una terra in cui è il voto popolare a decidere chi governa. Domani un gruppo di fascisti potrebbe prendere le strade e chiedere che un leader democratico venga deposto — quello che è successo ad Allende. Ci metteva già in guardia il grande Canetti in Massa e potere.
Piñera è stato eletto dal popolo cileno e sta al popolo, in un voto libero e segreto, eleggere chi gli dovrà succedere alla fine del mandato».
Finché non è esplosa la protesta del Cile si sentiva ripetere quanto fosse stabile e in crescita. Ma allora che cosa è successo?
«I segnali erano tutti lì, ma smarriti. Lo stess o Pi ñera a ve va a ppena def i ni to i l Paese “un’oasi”. Dietro questa svista c’era qualcosa che è già stato centrale nelle tesi dei pinochettisti: avevamo cessato, secondo loro, di appartenere all’America Latina. Ebbene, non solo apparteniamo all’America Latina perché abbiamo difficoltà simili a quelle dei nostri vicini (diseguale distribuzione delle risorse, masse di popolazioni marginalizzate, problemi strutturali, machismo contro le donne); ma anche perché proveniamo, come gli altri Paesi, dalla stessa tradizione popolare di lotta e aspirazioni per la giustizia, che si esprimono nella straordinaria creatività della gente in strada come nelle arti, nella letteratura, nella musica, nel senso dell’umorismo. E nella capacità di sognare».