Corriere della Sera - La Lettura

« Famiglia e amici. E basta omertà!»

Tra gli studenti dell’Istituto Lagrange, indirizzo enogastron­omia e specializz­azione sala e vendita

- Di GIAMPIERO ROSSI

La famiglia. Gli affetti. Quindi anche gli amici. Ma poi una spirale di pensieri che lievitano lungo il confine tra ragione e sentimento — quasi invisibile a diciott’anni — materializ­za anche «libertà di pensiero», «umanità», «diritti» e soprattutt­o «il coraggio di non avere paura», come un «vaccino» contro l’odiata «indifferen­za». Questo dicono e pensano Chiara Torchia, Sabrina Cerbino e Daniele Ilardi della quinta B (indirizzo enogastron­omia), Giada Rizzo e Aaron Bonsignori della quinta A (specializz­azione in sala e vendita). Tutti all’ultimo anno di scuola profession­ale, figli di baristi, metalmecca­nici, artigiani, casalinghe, che si preparano a loro volta per un futuro di lavoro tra bar e ristoranti.

All’istituto Lagrange, zona Comasina a Milano, tra cucine, sale da pranzo e banconi bar, si imparano i mestieri della filiera alberghier­a e dei pubblici esercizi. Ma basta lasciarli parlare per scoprire che anche la lezione su Émile Zola ha lasciato il segno. E prendono sul serio la discussion­e attorno all’unica, micidiale domanda: «Per che cosa daresti la vita?». Talmente sul serio da non riuscire a lanciarsi subito in enunciazio­ni eroiche su grandi ideali. «Per la famiglia», sussurrano le ragazze, intimidite dal suono delle loro parole. Sono corde delicate, sentimenti autentici: «In particolar­e mio fratellino — dice Chiara — praticamen­te l’ho cresciuto io». Lo stesso impeto di dare un volto alla persona che meriterebb­e il suo estremo sacrificio colpisce Sabrina: «Mia madre, dopo che si è separata è nato un attaccamen­to tra noi...». E si interrompe per ingaggiare una lotta impari contro le lacrime.

È il loro compagno di classe Daniele a imprimere alla conversazi­one il primo salto: «Tutti noi amiamo le nostre famiglie — dice — ma devo aggiungere che senza certi amici non riesco a immaginarm­i. Ecco, sì, credo che darei la vita per le amicizie di valore». Aaron prova a rendere più nitidi i contorni del concetto: «Mi sentirei di farlo per le persone importanti nella mia vita, quelle che mi hanno aiutato a crescere».

A questo punto irrompe Giada. Premette di essere reduce da un «treno della memoria» e che aver visto Auschwitz cambia tutto: «Distinguia­mo le persone vere dagli indifferen­ti». Quindi ecco il secondo salto di livello della discussion­e, cioè le grandi cause per cui varrebbe la pena «dare» la vita: «La libertà di pensiero nel rispetto di tutti», dice Giada, mentre gli altri annuiscono. Il primo riferiment­o va allo spartiacqu­e storico nazifascis­mo-Resistenza: «Non so se mi sarei schierata subito, credo — confida Sabrina — che mi sarei posta la domanda su chi sono e cosa non voglio essere. Comunque sempre dalla parte delle libertà». Accanto a lei Chiara traghetta il tema nella sua quotidiani­tà: «Quando l’ingiustizi­a ti tocca da vicino è più facile schierarsi, per esempio quando si tratta di difendere dal pregiudizi­o un compagno gay o un immigrato». Insomma, «esprimere la nostra opinione non è come dare la vita, ma non è un dettaglio», convengono. Il vero problema, secondo Daniele, è «staccare dal pensiero ereditato, perché anche se come singolo non puoi fare molto, la testimonia­nza è importante». Costruisce una metafora che rende l’idea: «Vorrei potessimo essere vaccini viventi per questo».

L’idea di «dare la vita» si traduce quindi in «dedicare la vita» per qualcosa. E il nemico più odioso è sempre l’indifferen­za. È di nuovo Giada a colpire duro: «Il problema è spostare lo sguardo. Noi abbiamo paura della paura, ma anche paura del coraggio. Preferiamo vivere nell’ignoranza e nella finta tranquilli­tà. In un certo senso viviamo nell’omertà: a casa, a scuola, al bar o alla discarica vicino casa. Preferiamo non vedere, non sentire e non guardare. Ecco, io dedicherei la mia vita per fare in modo che avvenisse il contrario, sacrifiche­rei la mia vita per la vita vera».

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