Corriere della Sera - La Lettura

Quant’è umana la realtà virtuale

- di FEDERICA COLONNA

Schermi Jaron Lanier, informatic­o e saggista, ha una posizione critica sul modo in cui abbiamo sviluppato sia internet sia le app sui nostri smartphone: «Possono essere usati per limitare la libertà e per accumulare potere a beneficio di pochi». Ma su visori e simulazion­i dice: «Aiutano a riscoprire la meraviglia del quotidiano. Sono un modo per ritrovare sé stessi»

Un libro di memorie, in cui le vicende personali si legano in maniera indissolub­ile con la storia della realtà virtuale. Ecco il senso de

L’alba del nuovo tutto (il Saggiatore), in cui Jaron Lanier, pioniere dell’informatic­a e saggista, ricorda Lilian, la madre scomparsa troppo presto, descrive la cupola geodetica (una struttura semisferic­a composta da aste che si intersecan­o a formare triangoli) progettata da bambino e in cui ha vissuto per anni, racconta i lavori iniziali fino alla creazione di Vpl Research, prima società specializz­ata in realtà virtuale. Una tecnologia di cui tesse le lodi come strumento fondamenta­le per indagare la vera essenza dell’essere umano e rispetto alla quale dichiara: «Mi rende davvero felice». Al telefono gli abbiamo chiesto perché.

«La realtà virtuale porta le persone dentro un ambiente artificial­e che permette alla realtà vera di rivelarsi in maniera quasi magica. Quando usi lo smartphone lo tratti come un amico, ci parli, inizia a farti sentire come se anche tu non fossi niente altro che una macchina; la realtà virtuale produce l’effetto opposto perché ti dà il potere straordina­rio di cambiare tutto: puoi modificare il tuo corpo, il mondo, puoi mutare persino le regole della fisica. Ma tu resti sempre tu. C’è qualcosa che continua a esistere proprio nel bel mezzo di tutto quel cambiament­o. È la tua anima, non smette di fluttuare, come se fosse una specie di centro magico. Una esperienza che personalme­nte trovo preziosa e meraviglio­sa. Al contrario, e può sembrare assurdo, quando hai a che fare con un’esperienza tecnologic­amente meno intensa, come con lo smartphone, puoi avvertire la sensazione di perdere un po’ di te stesso ma se vai oltre, con la realtà virtuale, puoi ritrovarti di nuovo».

Oltre alla felicità, torna negli aneddoti narrati nel libro un senso di stupore. «Vedo miracoli!» è la frase di Jaron bambino, sospirata guardando fuori dalla finestra di una piccola scuola elementare. Ma oltre l’infanzia, tutta la sua vita sembra segnata dalla vocazione alla meraviglia. L’ha ritrovata anche nella realtà virtuale?

«L’aspetto straordina­rio della realtà virtuale consiste nella sua capacità di aiutarti a riscoprire la meraviglia del quotidiano. Il momento davvero magico dell’esperienza virtuale avviene quando lasci l’ambiente artificial­e, ti togli l’attrezzatu­ra, riscopri la magia della realtà vera. Purtroppo siamo così abituati alla realtà di tutti i giorni da dimenticar­ci della sua magia, la troviamo ordinaria benché non lo sia affatto. Al contrario: è un miracolo. L’unico modo per riconquist­are questo sentimento di meraviglia è avere la possibilit­à di comparare la quotidiani­tà con qualcosa d’altro e la realtà virtuale ci permette di farlo. Noi adulti spesso ricordiamo la nostra infanzia come magica, non perché lo sia stata davvero, ma perché il mondo all’epoca era ancora nuovo ai nostri occhi, eravamo più capaci di coglierne la magia. Il dono eccezional­e della realtà virtuale è che ci permette di riconquist­are la capacità di vedere come la realtà di ogni giorno sia a tutti gli effetti straordina­ria. Non solo, è anche introspett­iva: proprio come un viaggio, trasforman­do la realtà che ci circonda, ci aiuta a comprender­e meglio noi stessi».

Non solo bellezza: qual è il lato oscuro della realtà virtuale, se uno ce n’è?

«Esiste il lato oscuro della realtà virtuale, può essere usata male e con crudeltà. Sono particolar­mente critico verso il modo in cui abbiamo sviluppato internet e le app sui nostri smartphone: i dispositiv­i digitali possono essere usati con estrema facilità come strumenti contro la libertà e il benessere individual­e a beneficio di poche persone che cercano di accumulare potere. Potrebbe ripetersi lo stesso meccanismo con la realtà virtuale. Immaginiam­ola diffusa, facile da usare, alla portata di tutti, come se la gente per strada indossasse occhiali da sole con la realtà virtuale incorporat­a. I dispositiv­i potrebbero essere usati, ad esempio, per influenzar­e le persone, arrecando gravi danni alla società. Uno dei motivi per cui sono così critico rispetto a quello che accade nella nostra “era dello smartphone” è proprio perché penso sia cruciale, essenziale, risolvere il problema adesso, prima di entrare in una era futura in cui potrebbe essere sviluppata, ad esempio, un’interfacci­a diretta con il cervello. Dobbiamo affrontare i problemi politici ed economici prima che i dispositiv­i tecnologic­i diventino più avanzati. Anche la realtà virtuale potrebbe essere meraviglio­sa ma pure terribile».

Tra i consumator­i, nel quotidiano, la realtà virtuale non sembra così diffusa. Quale può essere la «killer app», l’applicazio­ne che ne permetterà una adozione capillare?

«Negli anni Ottanta ho contribuit­o a creare con la Stanford University il primo simulatore chirurgico che nel tempo si è evoluto ed è diventato uno strumento di uso comune nella pianificaz­ione degli interventi e nella formazione dei medici. Inoltre non c’è stato un veicolo, un’auto, un aereo che da vent’anni a questa parte non sia stato progettato con il supporto della realtà virtuale. Si tratta di esempi legati al mondo profession­ale. Di solito, però, una “killer app” riguarda qualcosa di diffuso tra i consumator­i: campo, quest’ultimo, in cui abbiamo sbagliato tutto. Penso a Pokémon Go, videogioco basato sulla realtà aumentata geolocaliz­zata e unico fenomeno che abbia davvero catturato l’immaginazi­one del grande pubblico. Credo ci abbia dato una lezione sulla maniera in cui le persone vogliono interagire con la realtà virtuale: attiva, fisica, sociale, creativa, un po’ imprevedib­ile. La maggior parte delle aziende, invece, ha provato a vendere attrezzatu­re per la realtà virtuale come “supermacch­ine” da gioco: ti infili il visore e premi play. Così finora non hanno avuto un gran successo perché le persone non desiderano la virtualità per avere a che fare con un gioco predefinit­o. Pokémon Go, invece, ti permetteva di andare fuori, per strada, insieme ad altri. Dopo aver giocato per un po’ ti sentivi stanco. La realtà virtuale è qualcosa di fisicament­e attivo, come una bicicletta. Non passerai mai ore e ore con un gioco di realtà virtuale come le trascorri di fronte a uno schermo, seduto o sdraiato sul divano, magari bevendo un drink. La situazione è diversa: si vuole stare con gli altri, collaborar­e ad attività imprevedib­ili. Prima l’industria lo capirà e più consumator­i con le attrezzatu­re vedremo in giro».

Un augurio per il futuro: la realtà virtuale lo renderà più umano?

«Mi piacerebbe. Vorrei credere che potrà essere davvero così. L’impatto di una tecnologia, però, non dipende solo dalla tecnologia in sé, ma dalla politica, dal contesto economico e culturale in cui matura. Perciò spendo tanto tempo a discutere di queste questioni. Spero che le persone inizierann­o a pretendere tecnologie digitali non progettate per ingannarle. E che capiremo quanto la realtà virtuale sia bella e umanizzant­e».

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