Corriere della Sera - La Lettura
STEVENSON A SAMOA INTONA L’ADDIO
Di quale esperienza parla Robert Louis Stevenson nelle sue poesie sul viaggio? Certo, l’autore de L’isola del tesoro è stato un grande viaggiatore, ad esempio dalla sua Scozia verso l’America e il Pacifico meridionale, in cerca di sollievo ai problemi di salute. Eppure leggendo i Canti di viaggio (a cura di Luigi Marfè, prefazione di Alessandro Agostinelli, Ets) si comprende che i versi di queste poesie, pubblicate l’anno dopo la morte dell’autore (avvenuta nel 1894), sono la spola instancabile di un più profondo andirivieni: nel tempo, attraverso i volti amati e le occasioni, e in direzione di un altro approdo, di un altrove («ma io vado per sempre, per non tornare»).
I luoghi lontani da casa ed esotici dove scrive (in particolare le amate isole, da ultimo le Samoa) diventano a loro volta per Stevenson il punto di partenza di un altro inquieto peregrinare, sulle orme di sé stesso, dentro il proprio io abitato da memorie e latitudini differenti.
Nel testo numero XLII si discorre liricamente della labile traccia lasciata da ogni creatura nel suo passaggio e del ritmo incalzante che la sommerge: «[…]I tratti del nostro viso,/ il tono della voce, il tocco della mano amata,/ morendo svaniscono, uno a uno, dalla terra:/ intanto, nella sala del canto, la folla/ applaude al nuovo attore. […]». Si direbbe che il viaggiatore cerchi di rintracciare i lacerti di sé (struggenti le memorie remote delle «colline di casa») e di prepararsi all’unico, vero viaggio, a cui mira l’ultima poesia ( XLVI, Vespro): «Ho udito il segnale, Signore, ho compreso./ La notte al Tuo comando/ scende. Cenerò e dormirò, senza più domande».