Corriere della Sera - La Lettura
Non più versi per l’America ma per cantare gli americani
Quando si parla di poesia americana, che nel caso specifico significa statunitense, l’idea del presente o del nuovo prevale infallibilmente su quella del passato e della tradizione. Dalla costa dell’est a quella dell’ovest importa sempre e comunque la presenza di un’onda che avanza e avanza o, se si preferisce, dell’erba che cresce. Certo, rendere ragione della necessità di un poeta in base alla sua differenza e appunto novità, magari generazionale, rispetto a quanto già si è dato e codificato, fa parte dell’ordine stesso delle cose, dai poetæ novi dell’antica Roma fino a oggi. In questo caso, però, c’è di più. Si direbbe che sia un fatto di natura e di sangue, prima che di poesia. Al cospetto, un fenomeno come la teoria e la pratica dell’avanguardia, peraltro anzitutto europeo, appare astratto, letterario, voluto. Pensare a un poeta statunitense come a un avanguardista può risultare di per sé un anacronismo.
Non sarà un caso, allora, che il grande fermento editoriale attorno alla poesia statunitense che si è dato nell’ultimo quindicennio in Italia, abbia battuto anche e soprattutto su quest’idea. Di poeti americani, infatti, ne sono stati tradotti e pubblicati moltissimi, sia in raccolte singole sia in antologie. Il cosiddetto nuovo della poesia americana, da questo punto di vista, ha una tradizione ricchissima e precoce. Si pensi solo alle 4 grandi antologie di Nuova poesia americana che a partire dal 2005 Luigi Ballerini, Paul Vangelisti e Gianluca Rizzo (presente solo nelle ultime due) hanno dedicato rispettivamente ai poeti di Los Angeles, San Francisco, New York e Chicago (pubblicate le prime tre da Mondadori, la quarta, in due volumi per più di mille pagine, uscita da poco per Aragno). Ma andreb
bero ricordate almeno due altre antologie: West of your cities. Nuova antologia della poesia americana, uscita a cura di Mark Strand e Damiano Abeni nel 2003 (Minimum fax) e Nuovi poeti americani, curata da Elisa Biagini (Einaudi, 2006). Il fatto è che tanto più confrontando nomi e presenze, si ha prima di tutto l’impressione che i poeti siano innumerevoli, e che nonostante questo potrebbero essere molti di più. E tutti o quasi, tra l’altro, poeti seri, capaci, autenticamente necessitati: ognuno con la propria storia di poesia, i propri compagni di strada, lettori importanti, riconoscimenti critici, premi, e via dicendo. Un attestato d’identità poetica, chiamiamolo così, non manca a nessuno, a prescindere dall’età.
In relazione al numero praticamente infinito di chi scrive versi, si è parlato spesso, non senza buoni motivi, di uno scadimento, di un movimento della poesia verso il basso. Eppure — e la considerazione potrebbe estendersi a quanto accade in questi anni in Italia — si potrebbe pensare con ragioni altrettanto valide che da un po’ di tempo sia in corso un livellamento, il che significa anche una normalizzazione, verso l’alto.
In ogni caso, quella che dovrebbe essere la punta di un iceberg è in realtà una pianura amplissima, tanto più in una nazione vasta e policentrica come gli Stati Uniti. Forse la scelta di raggruppare i poeti semplicemente per città ha qualche fondamento, perché per il resto non ci si raccapezza più. Non quanto si era abituati per il passato, almeno. Correnti, movimenti, orientamenti, relazioni e tradizioni esistono ancora, certo, ma non riescono più a porsi come rappresentative, esemplari, discriminanti. Il fatto non è di per sé positivo o negativo, ma certamente è. Il canone, ovvero una mappatura più o meno centrata e definita, non esiste più; o magari esiste solo come una specie di fantasma nell’occhio di chi ancora è abituato, per comprendere, a collegare e selezionare. Non è affatto un discorso nuovo, del resto. Così forse si può solo aggiungere che se da un lato la situazione della poesia appare estremamente anarchica e parcellizzata, idiosincratica persino, dall’altra, per converso, risulta estremamente uniforme, riconoscibile, come se in ogni luogo e in ogni lingua si respirasse comunque un’aria comune.
Sono solo alcune delle suggestioni, generalissime, che si ricevono dalla lettura di un’ulteriore antologia poetica di autori statunitensi: Nuova poesia americana, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, il quale ultimo ne è anche il traduttore (è in uscita per le Edizioni Black Coffee di Firenze). Nelle intenzioni dell’editore e dei curatori, questo dovrebbe essere soltanto il primo di una serie di volumi a scadenza annuale, comprensivi ciascuno, come appunto il presente, di sei poeti, e intesi nel complesso a rendere ragione della ricchezza e della varietà del panorama attuale della poesia nordamericana. Tanto più al cospetto di un’iniziativa così lodevole, è certo un peccato allora che non sia presente il testo a fronte. Esistono, è vero, orientamenti della traduzione poetica che considerano sacrificabile se non superflua la presenza del testo originale, eppure resta l’impressione che la sua assenza procuri un danno non solo al poeta ma anche al lavoro del traduttore. E nel caso specifico Abeni è senza dubbio uno dei nostri traduttori più capaci e affidabili della poesia contemporanea in lingua inglese, e americana in particolare.
Ricordando che si tratta di autori finora mai pubblicati in lingua italiana, la scelta delle voci poetiche appare in ogni caso riuscita: Tracy K. Smith, Terrance Hayes, Robert L. Hass, Natalie Diaz, Layli Long Soldier e Robin Coste Lewis. Nell’introduzione al volume John Freeman, critico letterario e poeta a sua volta, osserva che «la poesia americana non ha più il compito di spiegare la nazione a sé stessa, come faceva un tempo». Al contrario, si tratta adesso di «poeti che non solo mettono alla prova i limiti imposti dalla forma, ma che accorciano il divario immaginativo tra che cos’è veramente l’America, chi sono le persone che ci vivono e come tutto questo viene raccontato in poesia». Chissà, forse è proprio da qui che deriva la riconoscibilità di queste poesie, al di là di etnie, lingue, storie, luoghi che sembrerebbero così diversi. Oppure è l’arcano potere della formalizzazione poetica, che di per sé regolarizza ogni cosa nel momento stesso in cui le dà voce nella sua natura particolare e determinata. Fatto sta che quando si passa alle singole poesie, ci si ritrova.
Solo qualche richiamo. Terrance Hayes è un virtuoso della forma, che si muove con estrema padronanza su una tastiera molto ampia di metri e di registri espressivi (ha anche messo a punto una sua particolare variante del sonetto, il cosiddetto golden shovel). Però è un poeta tutt’altro che decorativo. La sua Poesia della carpa, una specie di parabola che riguarda una lezione di poesia tenuta ai detenuti in un carcere, è senza dubbio notevole. Tracy K. Smith riesce a dar voce con estrema precisione alle sue sensibilissime corde interiori toccate dai piccoli grandi eventi dell’esistenza di tutti: l’amore, la partecipazione, la solitudine, l’anonimato, le domande cosmiche, l’ingiustizia (la poesia Gli Stati Uniti vi danno il benvenuto sembra scritta apposta per la nostra situazione italiana). Layli Long Soldier, una poetessa nativa appartenente a una tribù dei Lakota, scrive un poemetto sull’impiccagione di 38 indiani sotto la presidenza di Lincoln. Proprio a partire dalle sue sacrosante ragioni, poteva essere una poesia ideologica. Distacco, precisione, ironia, ne fanno invece un testo toccante e persuasivo. In Robert L. Hass, infine, il paesaggio (anzitutto quello della West Coast) diventa il tramite di una formidabile meditazione sul rapporto tra parola e cosa, soggetto e oggetto, persona e persona, ma anche sul desiderio, che li unisce e insieme li separa. La sua Musica sommessa è una delle poesie più belle del volume: «Avevo l’impressione che il mondo fosse così pieno di dolore/ da a volte dover emettere una specie di canto./ E che il mettere in fila le cose consola, quanto anche l’ordine consola —/ prima un ego, e poi il dolore, e poi il canto».