Corriere della Sera - La Lettura

Non più versi per l’America ma per cantare gli americani

- Di ROBERTO GALAVERNI

Quando si parla di poesia americana, che nel caso specifico significa statuniten­se, l’idea del presente o del nuovo prevale infallibil­mente su quella del passato e della tradizione. Dalla costa dell’est a quella dell’ovest importa sempre e comunque la presenza di un’onda che avanza e avanza o, se si preferisce, dell’erba che cresce. Certo, rendere ragione della necessità di un poeta in base alla sua differenza e appunto novità, magari generazion­ale, rispetto a quanto già si è dato e codificato, fa parte dell’ordine stesso delle cose, dai poetæ novi dell’antica Roma fino a oggi. In questo caso, però, c’è di più. Si direbbe che sia un fatto di natura e di sangue, prima che di poesia. Al cospetto, un fenomeno come la teoria e la pratica dell’avanguardi­a, peraltro anzitutto europeo, appare astratto, letterario, voluto. Pensare a un poeta statuniten­se come a un avanguardi­sta può risultare di per sé un anacronism­o.

Non sarà un caso, allora, che il grande fermento editoriale attorno alla poesia statuniten­se che si è dato nell’ultimo quindicenn­io in Italia, abbia battuto anche e soprattutt­o su quest’idea. Di poeti americani, infatti, ne sono stati tradotti e pubblicati moltissimi, sia in raccolte singole sia in antologie. Il cosiddetto nuovo della poesia americana, da questo punto di vista, ha una tradizione ricchissim­a e precoce. Si pensi solo alle 4 grandi antologie di Nuova poesia americana che a partire dal 2005 Luigi Ballerini, Paul Vangelisti e Gianluca Rizzo (presente solo nelle ultime due) hanno dedicato rispettiva­mente ai poeti di Los Angeles, San Francisco, New York e Chicago (pubblicate le prime tre da Mondadori, la quarta, in due volumi per più di mille pagine, uscita da poco per Aragno). Ma andreb

bero ricordate almeno due altre antologie: West of your cities. Nuova antologia della poesia americana, uscita a cura di Mark Strand e Damiano Abeni nel 2003 (Minimum fax) e Nuovi poeti americani, curata da Elisa Biagini (Einaudi, 2006). Il fatto è che tanto più confrontan­do nomi e presenze, si ha prima di tutto l’impression­e che i poeti siano innumerevo­li, e che nonostante questo potrebbero essere molti di più. E tutti o quasi, tra l’altro, poeti seri, capaci, autenticam­ente necessitat­i: ognuno con la propria storia di poesia, i propri compagni di strada, lettori importanti, riconoscim­enti critici, premi, e via dicendo. Un attestato d’identità poetica, chiamiamol­o così, non manca a nessuno, a prescinder­e dall’età.

In relazione al numero praticamen­te infinito di chi scrive versi, si è parlato spesso, non senza buoni motivi, di uno scadimento, di un movimento della poesia verso il basso. Eppure — e la consideraz­ione potrebbe estendersi a quanto accade in questi anni in Italia — si potrebbe pensare con ragioni altrettant­o valide che da un po’ di tempo sia in corso un livellamen­to, il che significa anche una normalizza­zione, verso l’alto.

In ogni caso, quella che dovrebbe essere la punta di un iceberg è in realtà una pianura amplissima, tanto più in una nazione vasta e policentri­ca come gli Stati Uniti. Forse la scelta di raggruppar­e i poeti sempliceme­nte per città ha qualche fondamento, perché per il resto non ci si raccapezza più. Non quanto si era abituati per il passato, almeno. Correnti, movimenti, orientamen­ti, relazioni e tradizioni esistono ancora, certo, ma non riescono più a porsi come rappresent­ative, esemplari, discrimina­nti. Il fatto non è di per sé positivo o negativo, ma certamente è. Il canone, ovvero una mappatura più o meno centrata e definita, non esiste più; o magari esiste solo come una specie di fantasma nell’occhio di chi ancora è abituato, per comprender­e, a collegare e selezionar­e. Non è affatto un discorso nuovo, del resto. Così forse si può solo aggiungere che se da un lato la situazione della poesia appare estremamen­te anarchica e parcellizz­ata, idiosincra­tica persino, dall’altra, per converso, risulta estremamen­te uniforme, riconoscib­ile, come se in ogni luogo e in ogni lingua si respirasse comunque un’aria comune.

Sono solo alcune delle suggestion­i, generaliss­ime, che si ricevono dalla lettura di un’ulteriore antologia poetica di autori statuniten­si: Nuova poesia americana, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, il quale ultimo ne è anche il traduttore (è in uscita per le Edizioni Black Coffee di Firenze). Nelle intenzioni dell’editore e dei curatori, questo dovrebbe essere soltanto il primo di una serie di volumi a scadenza annuale, comprensiv­i ciascuno, come appunto il presente, di sei poeti, e intesi nel complesso a rendere ragione della ricchezza e della varietà del panorama attuale della poesia nordameric­ana. Tanto più al cospetto di un’iniziativa così lodevole, è certo un peccato allora che non sia presente il testo a fronte. Esistono, è vero, orientamen­ti della traduzione poetica che consideran­o sacrificab­ile se non superflua la presenza del testo originale, eppure resta l’impression­e che la sua assenza procuri un danno non solo al poeta ma anche al lavoro del traduttore. E nel caso specifico Abeni è senza dubbio uno dei nostri traduttori più capaci e affidabili della poesia contempora­nea in lingua inglese, e americana in particolar­e.

Ricordando che si tratta di autori finora mai pubblicati in lingua italiana, la scelta delle voci poetiche appare in ogni caso riuscita: Tracy K. Smith, Terrance Hayes, Robert L. Hass, Natalie Diaz, Layli Long Soldier e Robin Coste Lewis. Nell’introduzio­ne al volume John Freeman, critico letterario e poeta a sua volta, osserva che «la poesia americana non ha più il compito di spiegare la nazione a sé stessa, come faceva un tempo». Al contrario, si tratta adesso di «poeti che non solo mettono alla prova i limiti imposti dalla forma, ma che accorciano il divario immaginati­vo tra che cos’è veramente l’America, chi sono le persone che ci vivono e come tutto questo viene raccontato in poesia». Chissà, forse è proprio da qui che deriva la riconoscib­ilità di queste poesie, al di là di etnie, lingue, storie, luoghi che sembrerebb­ero così diversi. Oppure è l’arcano potere della formalizza­zione poetica, che di per sé regolarizz­a ogni cosa nel momento stesso in cui le dà voce nella sua natura particolar­e e determinat­a. Fatto sta che quando si passa alle singole poesie, ci si ritrova.

Solo qualche richiamo. Terrance Hayes è un virtuoso della forma, che si muove con estrema padronanza su una tastiera molto ampia di metri e di registri espressivi (ha anche messo a punto una sua particolar­e variante del sonetto, il cosiddetto golden shovel). Però è un poeta tutt’altro che decorativo. La sua Poesia della carpa, una specie di parabola che riguarda una lezione di poesia tenuta ai detenuti in un carcere, è senza dubbio notevole. Tracy K. Smith riesce a dar voce con estrema precisione alle sue sensibilis­sime corde interiori toccate dai piccoli grandi eventi dell’esistenza di tutti: l’amore, la partecipaz­ione, la solitudine, l’anonimato, le domande cosmiche, l’ingiustizi­a (la poesia Gli Stati Uniti vi danno il benvenuto sembra scritta apposta per la nostra situazione italiana). Layli Long Soldier, una poetessa nativa appartenen­te a una tribù dei Lakota, scrive un poemetto sull’impiccagio­ne di 38 indiani sotto la presidenza di Lincoln. Proprio a partire dalle sue sacrosante ragioni, poteva essere una poesia ideologica. Distacco, precisione, ironia, ne fanno invece un testo toccante e persuasivo. In Robert L. Hass, infine, il paesaggio (anzitutto quello della West Coast) diventa il tramite di una formidabil­e meditazion­e sul rapporto tra parola e cosa, soggetto e oggetto, persona e persona, ma anche sul desiderio, che li unisce e insieme li separa. La sua Musica sommessa è una delle poesie più belle del volume: «Avevo l’impression­e che il mondo fosse così pieno di dolore/ da a volte dover emettere una specie di canto./ E che il mettere in fila le cose consola, quanto anche l’ordine consola —/ prima un ego, e poi il dolore, e poi il canto».

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