Corriere della Sera - La Lettura

La legge del Colibrì: sono ciò che vedo

Duplicità Al centro del nuovo romanzo di Sandro Veronesi c’è un oculista, come il protagonis­ta de «Il dottor Živago». Che è il romanzo preferito del personaggi­o dell’autore toscano. Indizi di una poetica

- Di PIERLUIGI BATTISTA

Boris Pasternak descrive il suo Jurij Živago, dottore con specializz­azione in oculistica, mentre porta a termine una complicata «dissertazi­one sugli elementi nervosi della retina» per ottenere la medaglia d’oro universita­ria. Il carattere de Il dottor Živago, commenta Pasternak, è profondame­nte intrecciat­o alla sua passione per il funzioname­nto dell’occhio, alimento e origine della sua sensibilit­à artistica e per lo studio dell’«essenza estetica dell’immagine». Il guardare di Jurij Živago è insieme scienza, estetica e modo di vedere il mondo attraverso le immagini. E infatti il protagonis­ta de Il colibrì di Sandro Veronesi, il Marco Carrera «specialist­a in oculistica e oftalmolog­ia», come recita la «targa apposta sulla porta del suo ambulatori­o», amava molto Il dottor Živago suo collega in oculistica, tanto da aver coltivato l’inconfessa­bile desiderio di chiamare Lara, come l’eroina di Pasternak, sua figlia Adele.

Solo un dettaglio insignific­ante? Carrera avrebbe potuto essere indifferen­temente un medico dentista o un dermatolog­o o un chirurgo plastico? No, mille indizi ci dicono che nel romanzo di Veronesi il guardare, lo scrutare, la centralità dell’occhio, l’esperienza visiva ha un ruolo centrale, ha una sua necessità non solo narrativa ma anche esistenzia­le nel modo di stare e soffrire nel mondo di Marco Carrera.

Veronesi tiene a sottolinea­re che Carrera aveva preso da sua madre «il talento con lo sguardo, attraverso il mirino delle macchine fotografic­he». Scrive proprio così: «il talento», perché lo sguardo è un’arte che va esercitata, è una facoltà che va affinata, un dono che va meritato. Il talento, si legge a un certo punto, di cercare «animali selvatici da fotografar­e, possibilme­nte cogliendol­i in quell’unico brevissimo istante in cui si degnano di ricambiare lo sguardo dell’uomo». Perché le cose, gli animali, le persone diventano interessan­ti per lo sguardo che offrono, per lo sguardo che attirano se, come tante manifestaz­ioni del creato, non possiedono un paio d’occhi per ricambiare l’ammirazion­e di chi le guarda, per i significat­i che si celano e si disvelano attraverso uno sguardo. Perché se della persona amata si cerca uno sguardo, quel particolar­e, peculiaris­simo sguardo che può essere l’unico sguardo possibile dell’amore, anche ciò che viene guardato assume un significat­o solo se l’occhio lo guarda in un certo modo e non in un altro, pigro, incolore, distratto, disinteres­sato.

L’occhio c’è sempre, ne Il colibrì, c’è anche quando all’apparenza non c’entra, anche se può sembrare una coincidenz­a che un capitolo del romanzo si intitoli L’occhio del ciclone, che in queste pagine non ha un rapporto diretto con lo sguardo, con qualcosa di decisament­e importante come il cinismo del destino, la fortuna e la sfortuna, la direzione che possono prendere le cose sotto l’effetto di una maledizion­e, o di una superstizi­one. Ma, attraverso l’oculista Carrera, Sandro Veronesi ci fa capire che il mondo non è un monolite immobile ma qualcosa il cui senso può essere penetrato con lo sguardo. Che tutto è duplice, come è duplice l’identità di Živago, medico e insieme poeta, come è duplice l’identità di Veronesi, scrittore e architetto, ossia specializz­ato in una disciplina che si realizza nelle forme, che congiunge il vedere e il costruire, lo sguardo e i rapporti matematici che organizzan­o lo sguardo dell’architettu­ra e la materialit­à di una costruzion­e. Sempre duplice o molteplice, se si vuole andare oltre: oggettivo e insieme modificato dallo sguardo soggettivo, lineare e insieme curvo, dai contorni netti oppure immerso nei chiaroscur­i. Come si dice in questi casi: dipende dal punto di vista. Punto di vista, che pure è un modo di dire convenzion­ale, ma poi alla fine sempre con la «vista», con il modo di vedere e di percepire, stabilisce un rapporto necessario.

E se Pasternak fa scrivere al poeta Živago una dissertazi­one «sugli elementi nervosi della retina», Veronesi si spinge oltre questo confine e sfida Carrera in uno dei capitoli più sorprenden­ti del romanzo, costringen­dolo ad affrontare una platea di severi oculisti e oftalmolog­i riuniti nel convegno dedicato a La percezione visiva tra occhio e cervello. Ma invece di parlare di retine e cornee, di ipermetrop­ia e maculopati­a, Carrera con il suo intervento intitolato Gli sguardi sono corpo prende una direzione che con il discorso scientific­o in senso stretto c’entra ben poco ma enuncia una filosofia dello sguardo che è il cuore di questo romanzo.

Pa r l a d e l l a b a mbi n a c h e v u o l e l o sguardo del nonno prima di addormenta­rsi: «Altrimenti non ci sei, e se non ci sei scordati che io mi addormenti». Parla del benzinaio che in maniera ostentata si volta di scatto dall’altra parte quando l’automobili­sta deve digitare il suo Pin: un «gesto madornale» per dire: «Non è mia intenzione clonarti la carta» mentre invece uno sguardo di troppo potrebbe rompere il patto di fiducia tra chi paga e chi viene pagato. Cita Dante del Canto XIII del Purgatorio, al cospetto degli invidiosi: «A me pareva, andando, fare oltraggio/ Veggendo altrui, non essendo veduto/ Perch’io mi volsi al mio consiglio saggio», distoglien­do lo sguardo perché quelle anime non possono ricambiarl­o.

Più importanti del freddo e analitico discorso scientific­o, per l’oculista Carrera, e dunque per lo scrittore Veronesi, sono «le conseguenz­e quasi esclusivam­ente emotive» degli sguardi. Ancora di più: «Gli sguardi sono armi potentissi­me e producono urti emotivi anche quando non sono lanciati allo scopo di produrli». Carrera cita Alexandre Hollan: «Sono ciò che vedo». Che poi è l’esatto contraltar­e del cartesiano «penso, dunque sono», perché annette allo sguardo, al vedere, al leggere le cose e le emozioni oltre che i libri un valore, se non superiore, certamente diverso rispetto al pensiero astratto, alla razionalit­à pura, all’univocità della dimostrazi­one scientific­a. Un altro punto di vista, un ingresso laterale nella complessit­à del mondo che la scienza e la medicina cercano di ridurre nei suo elementi più chiari (ed è un bene che sia così) ma che l’arte e la letteratur­a possono essere capaci di rappresent­are privilegia­ndo le «conseguenz­e emotive» delle cose guardate, viste e restituite a un significat­o che è lo stesso dello sguardo degli animali selvatici fotografat­i da Carrera.

È questo il «talento» che l’oculista Carrera eredita dalla madre irrequieta, curiosa. Imprudente, impaziente. Ed è questo «talento» che ci trasmette Il colibrì.

Il protagonis­ta cerca «animali selvatici da fotografar­e, possibilme­nte cogliendol­i in quell’unico brevissimo istante in cui si degnano di ricambiare

lo sguardo dell’uomo». Veronesi tiene a sottolinea­re che Marco Carrera aveva preso da sua madre «il talento con lo sguardo, attraverso il mirino delle macchine fotografic­he», perché lo sguardo è un’arte che va esercitata

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