Corriere della Sera - La Lettura
Burri e Rothko per la cappa di Tosca
Anticipazione Gianluca Falaschi è il costumista dell’opera di Puccini che il 7 dicembre inaugura la stagione della Scala, diretta da Riccardo Chailly. «Non mi interessava la ricostruzione storica ma l’astrazione». E dunque, ecco i riferimenti all’arte inf
«Quando Tosca entrerà a Palazzo Farnese indosserà una cappa azzurra in taffetà: un vero opera coat da “prima”», spiega Gianluca Falaschi, che in queste settimane è al lavoro per realizzare i costumi di Tosca, suo secondo Sant’Ambrogio di fila alla Scala dopo Attila, sempre con direzione di Riccardo Chailly e regia di Davide Livermore. Protagonista Anna Netrebko, che nel secondo atto entrerà in scena vestita come se stesse andando all’opera, con un mantello che, la sera dell’inaugurazione, potrebbe indossare qualunque elegante spettatrice. «Qualcosa del 7 dicembre lo abbiamo messo pure sul palcoscenico», commenta Falaschi. Come in un gioco di specchi: «Puro metateatro. D’altronde il personaggio di Tosca è una diva, una star, proprio come la nostra Tosca, Anna Netrebko, che infatti sa bene come si portano certi abiti».
Quali sono stati i riferimenti per il suo lavoro?
«Con Livermore siamo partiti dalle lettere di Puccini dell’Archivio Storico Ricordi, ad esempio per il Te Deum, dove si coglie quanto fosse informato sui dettagli della corte papale. Ma non ci interessava tanto lo scorcio storico: ecco perché ho cercato di porre un’astrazione nei figurini, per dare carattere assoluto alla vicenda, lasciandomi ispirare da certe riflessioni di Chailly. Mi sono rivolto alla pittura informale: soprattutto Burri e Rothko ma anche Schifano e Fontana».
E per i materiali?
«Ho pensato subito al plissé, per avere più ritmo nei costumi, come in un disegno a china: volevo un risultato moderno, ma che richiamasse un bozzettismo tratteggiato alla Pinelli, l’illustratore romano, come un’ombra riconoscibile di Ottocento. Insomma, evocare un’epoca senza ricostruirla. Alla Scala si può fare, perché la sartoria custodisce ancora un’importante tradizione, nata oltre cent’anni fa. Il costume è un sentiero per entrare nello spettacolo: è l’incipit che racchiude le parole non dette, il “c’era una volta” che accoglie il pubblico».
E gli altri personaggi?
«Per Cavaradossi siamo partiti dai tagli originali ottocenteschi, per arrivare a dei pantaloni moderni che dessero un maggior senso di verità. Scarpia indosserà una vestaglia lavorata da costume antico, che porterà come se fosse un paramento sacro. Ho sempre amato elementi come vestaglie e mantelli, perché è ciò che qualunque bambino indossa quando vuole mettersi nei panni di qualcun altro».
«Tosca» è un’opera attraversata da un erotismo ossessivo e inquietante: quanto si percepirà nei suoi costumi?
«Non esiste solo la dimensione sensuale, nella protagonista: ci sono anche le sue fragilità, di cui bisogna tenere conto se non si vuole trasformare il costume in una gabbia. Detto questo, nel suo confronto con Scarpia c’è senz’altro molto erotismo: un erotismo fatto di sguardi, che insieme a Livermore abbiamo trovato anche nella musica. Non c’è dubbio che Tosca sia una donna con un rapporto consapevole con il proprio corpo, così com’è consapevole degli sguardi degli uomini, di cui alla fine sarà vittima».
Come emerge questa consapevolezza, attraverso un costume?
«Quando un personaggio entra in scena deve sembrare un’apparizione, e il costume contribuisce a dare allo spettatore come un ricordo che lo emozioni almeno un po’. In fondo a teatro la bellezza ha a che fare con la sorpresa: la seduzione sta nel l a f a nt a s magoria c he dura pochi istanti ma che bastano a rendere qualunque artista desiderabile. È un fascino che si ritrova in tutti gli attori, quando riescono a calarsi nella parte. È questa la bellezza, che non ha niente a che vedere con l’aspetto, con la taglia, in una parola con l’apollineo: in ogni corpo c’è la possibilità di essere qualunque cosa. Negli ultimi vent’anni l’opera è cambiata molto in questo senso: oggi conta il giusto, più che il banalmente bello. A volte nel mio lavoro capita di seguire una strada che porta il cantante a riconoscersi, a incontrare grazie al costume non solo qualcosa del personaggio ma anche di sé».
Di nuovo metateatro: è davvero questo l’obiettivo?
«Ogni volta vorrei che gli spettatori in sala oltrepassassero il palcoscenico con la fantasia, immaginando di vedere lo spettacolo da dietro le quinte. Il costume può accompagnarli in questa esperienza: a volte è una virgola, altre un aggettivo, ma è sempre un atto letterario».