Corriere della Sera - La Lettura
Che vertigini il concerto al tempo di Spotify
Oggi, domenica 24, una maratona musicale chiude la stagione del Romaeuropa Festival. Un paio di settimane fa un altro happening musicale ha attirato l’attenzione di uno scrittore. Perché veniva eseguita la prima composizione classica di Thom Yorke; e poi perché le sorelle Labèque sono pianiste leggendarie; e poi perché... Altro che digitale...
Aun certo punto, abbastanza presto, direi già verso la fine del secondo brano, succede che non ricordo più il mio nome. Come mi chiamo? Chi sono? Per cinque e poi dieci minuti, ma in un modo che in realtà sembra sfondare la dimensione del tempo, i due pianoforti suonano le stesse brevi frasi, riprese e subito rilanciate dalle due chitarre elettriche, riff di poche note, semplici scale che girano e girano, rimodulando la stessa cellula melodica in microvariazioni infinitamente ripetute. Una specie di mandala musicale che mi ha risucchiato fuori dal corpo facendomi galleggiare nella sala in uno stato di sospensione limbica. Estasi, meditazione trascendentale o semplice perdita di conos ce nza? I mmagino s i a cos ì i l bardo buddhista, l’anticamera della reincarnazione, eppure questo stato di pre-morte non produce angoscia, produce piacere. In fondo, perdere i connotati di individuo, di soggetto pensante, dà sollievo ed è la condizione ideale di ogni mistica, anche occidentale, basti pensare al «decrearsi dell’io» nei Quaderni di Simone Weil.
Erroneamente continuo a usare il verbo pensare: chi pensa qui? Forse la musica stessa. È la musica che si pensa attraverso la circolarità messa in azione dalle pianiste e dai chitarristi che, pur essendo stelle del concertismo, questa sera sembrano a servizio di una missione più alta, dove non conta la bravura né tantomeno la vanità. La loro prodezza virtuosistica consiste piuttosto nello sparire, nel lasciarsi inghiottire in una cosa che è insieme matematica e Dio. Devo faticare non poco per riprendere possesso del mio corpo, in fila 15, e ripartire dall’inizio, stavolta con un minimo di logica.
Mi trovo nella sala Santa Cecilia, all’Auditorim di Roma, per uno degli ultimi appuntamenti di Romaeuropa Festival, il concerto delle sorelle Labèque, Katia e Marielle, pianiste ammantate di leggenda, forse anche per la loro straordinaria somiglianza e un repertorio sterminato, oggi alle prese con opere di Steve Reich, Philip Glass e la prima composizione classica di Thom Yorke, leader dei Radiohead. Ma il programma di sala prevede anche un paio di prime esecuzioni mondiali, due brani di Bryce Dessner e David Chalmin, compositori e chitarristi, che infatti sono in scena con i loro strumenti (e campionatori e synth) accanto alle pianiste, per trasformare il duo Labèque in un quartetto di musica minimalista e elettronica.
Un concerto, che strano modo di ascoltare musica. I brani in programma sono tutti acquistabili, da scaricare o in streaming, potevo cercarli su iTunes o Spotify come faccio sempre e godermeli quando mi pareva, in qualsiasi momento libero della giornata, fumando alla finestra o camminando verso la metro, potevo assaggiarli e poi saltare al successivo e a quello dopo ancora, finché non ne trovavo uno abbastanza orecchiabile da ascoltare per intero e magari, chissà, salvare tra i preferiti. La musica si è mossa per prima in quest’ottica di comodità individualizzata, offrendo in rete ogni genere di ascolto, profilando subito l’utente per fornirgli indicazioni di ricerca e poi nuove tracce affini al suo gusto. Avere in tasca una discoteca con la musica di tutti i tempi, gratis o quasi gratis, da poter sentire anche in modalità shuffle, saltabeccando da un pezzo di cool jazz a un’aria della Tosca, a un crooner degli anni Cinquanta, a un madrigale di Monteverdi, all’ultima hit di Rihanna, tutto sempre alla nostra portata, in qualsiasi istante, be’, sarebbe stato inimmaginabile fino a pochi anni fa anche per i più visionari autori di fantascienza.
Che effetti ha avuto un simile dono sull’ascoltatore? Il primo è stato senza dubbio un misto di libertà e onnipotenza, un senso inebriante di dominio e appagamento, ovviamente destinato a rapida saturazione: la logica del godimento immediato comporta un inevitabile calo del desiderio.
Il secondo effetto è stato un netto sbilanciamento nel rapporto tra opera e interprete. Nel mercato tutto deve girare attorno alla figura del consumatoreascoltatore — il cliente ha sempre ragione — quindi colui che consuma-ascolta musica è su un piano di superiorità rispetto a chi la suona e a chi la compone. Io che consumo-ascolto, a prescindere dalla mia educazione musicale, finisco
per assumere una postura ipercritica e sentenziosa nell’interpretazione dell’opera. In un modo non troppo diverso da come trincio giudizi su enoteche e ristoranti, anche qui posso mettere stelline o rapidamente skippare, penalizzando quel brano nell’arcano metabolismo dell’algoritmo, ma soprattutto riducendo tutto all’immediatezza, alla superficialità del mio arbitrio. È certo positiva l’emancipazione ermeneutica dell’ascoltatore, ma se sotto il velo di questo traguardo democratico si nasconde il capriccio di un despota, che ne è dell’autorevolezza dell’opera? E l’opera, una volta che smette di essere autorevole, potrà ancora sedurmi? Vediamo come funzionava prima.
Sono venuto al concerto, attirato dal fatto che si eseguisse il primo pezzo strumentale di musica colta scritto da Thom Yorke. Con Yorke sono in quello strano punto del rapporto in cui vivi il successo dell’altro come un tradimento personale. Succede ad esempio quando scopri un autore che nessuno ancora conosce, instauri un rapporto intimo, quasi privato con il suo lavoro e poi lui, senza chiederti il permesso, diventa una star planetaria. Ricordo la prima volta che ho sentito Creep. «Secondo me questi ti piacciono», mi aveva detto con fare complice il ragazzo del negozio di dischi inserendo il cd. Nel 1993 esistevano ancora i negozi di dischi, ci si andava con una certa consuetudine. In quello avevo trascorso parecchie mezz’ore, a cincischiare, a valutare possibili acquisti, a chiacchierare con il ragazzo che lo gestiva. I Radiohead, l’ennesimo gruppo che sbucava dalla scena underground inglese. Però in effetti la voce di Thom Yorke catturava subito e poi mi piaceva come venivano raccontati quei cinque ragazzi sulle riviste (si leggevano ancora le riviste), il loro atteggiamento da antidivi, il fatto che cominciassimo insieme (pochi mesi dopo avrei pubblicato il mio primo libro), sicché sono uscito dal negozio con Pablo Honey nel sacchetto.
Delle dodici tracce solo tre erano convincenti a un primo ascolto. Tra l’altro, mi colpiva che Creep, la canzone che sarebbe diventata una hit da milioni di download e vera persecuzione del gruppo (costretto a suonarla a ogni concerto anche 25 anni dopo), non fosse la prima traccia del disco. C’era You e poi c’era
Creep, a cui seguivano altri brani non proprio stupefacenti, ma che evidentemente rispondevano a un disegno, un ordine la cui successione rappresentava una forma, ovvero il discorso musicale che i Radiohead avevano concepito al loro esordio. Toccava a me afferrare il senso di quella successione, o per lo meno attraversarla con una disposizione di totale apertura, rinnovata a ogni nuovo ascolto con il presupposto che l’opera, nel suo complesso, conteneva un discorso e quel discorso andava sentito tutto, anche dove non si capiva bene. Del resto mi era capitato così anche con The
Wall o White Album o con i dischi dei King Crimson e dei Van der Graaf Generator. E mi sarebbe capitato di nuovo con gli stessi Radiohead, dopo la virata orfico-elettronica di Kid A, da me salutata con entusiastica devozione. Erano opere compiute, discorsi in musica. Come avrei potuto scegliere di petalo in petalo per comporre una playlist? All’epoca la mia postura era completamente diversa dal consumatore-ascoltatore che sarei diventato. Sto facendo esempi dal rock perché sia chiaro che la questione non riguarda solo la musica colta, poi, certo, la musica colta non può che essere destinata all’estinzione in un mondo in cui la difficoltà dell’opera non è mai una sfida, ma solo una seccatura da cui fuggire con la doppia freccetta.
Il fatto è che in ogni fruizione gioca un ruolo determinante l’investimento libidico: impiegare soldi e tempo per ascoltare musica tende ad aumentare il nostro interesse e quindi il valore che at
tribuiremo all’esperienza. Per venire al concerto di stasera ho dovuto segnarmi l’impegno, acquistare il biglietto, aspettare — assaporare l’attesa — e poi, finalmente, muovermi per tempo da casa, affrontare il traffico, trovare parcheggio. Tutto ciò, oltre a innescare l’immaginazione, ha contribuito a ripristinare l’antico equilibro tra me e l’opera. L’opera non era a mia disposizione, ci siamo dati un appuntamento. Forse si è ridotta la libertà, ma ne ha guadagnato il desiderio. Ora ascolterò con attenzione ogni singolo brano, cercherò di capire le motivazioni che hanno spinto i musicisti a scegliere questa successione anche nel caso dovesse lasciarmi perplesso. Mi aprirò alla comprensione del loro discorso.
Le due pianiste si scambiano occhiate fulminee oltre gli spartiti, la stessa donna allo specchio, le code degli Steinway incuneate l’una nell’altra fino a diventare un solo strumento, la doppia tastiera da cui sale la spirale infinita di questa specie di raga occidentale, reso più vorticoso e insieme più metallico — più
crepitante — dalle chitarre. Rischio di levitare di nuovo, devo afferrarmi ai concetti. La verità dell’opera si rivela nel suo accadere. L’arte non è, accade. I brani di Glass, Reich, Yorke, Dessner, Chalmin non sono nulla finché restano sul pentagramma. Diventano ciò che sono sotto i polpastrelli delle sorelle Labèque e in ogni altra esecuzione. Certo, anche un buon ascolto in casa, o in cuffia, è a suo modo un’esecuzione — «l’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica» — ma la partecipazione a un concerto è un’esperienza dotata di una sua intrinseca irripetibilità. Qui l’opera accade nel senso più proprio, per questo è davvero un evento. Condividerla in uno spazio comune non è mai lo stesso che ascoltarne una registrazione. Possono, ad esempio, succedere cose impreviste: a metà di un brano David Chalmin chiede di ricominciarlo daccapo perché — spiega a noi del pubblico — si è accorto che non è partita la base campionata. Oppure: rientrando dalla pausa, dopo che si sono tutti riseduti, Katia Labèque si alza ed esce di nuovo lasciando i colleghi a guardarsi perplessi. L’imbarazzo dura lunghi minuti, tanto da costringere Chalmin a riprendere la parola — «I camerini sono molto lontani…» — finché, dopo altri aggiustamenti dei tre rimasti sul palco, riappare la pianista sventolando lo spartito. Insomma, succedono cose, fa così la vita (e la musica in equilibrio sul suo filo). Ma anche senza imprevisti, ogni concerto è una performance collettiva, un dialogo sentimentale tra sconosciuti attraverso la lingua dell’arte. È la questione del cosiddetto live, del cosiddetto happening, umani reali che incontrano umani reali, un altro retaggio del mondo analogico che forse potremmo provare a riscoprire.