Corriere della Sera - La Lettura

«Anch’io in piazza per un Iraq laico»

- Di LORENZO CREMONESI

Da settimane la capitale è sconvolta da proteste con centinaia di morti. Ai cortei si è unito lo scrittore

«La politica è marcia, la polizia spara, noi moriamo. Vogliamo un Paese moderno, senza divisioni etniche o religiose»

«Ma è ovvio che anch’io vado a protestare! Lo trovo un dovere sociale e morale, prima ancora che politico. Stiamo costruendo un nuovo Iraq. E con la forza del mio nome difendo la nostra gente sui social media. Ne scrivo su Facebook. Come tutti sono indignato da ciò che vedo, sbalordito quando gli agenti sparano sulla folla alzo zero, piango i nostri morti, i giovani innocenti. È inammissib­ile, una follia; oltretutto non serve ad altro che a portare altri manifestan­ti nelle strade e ad aumentare la loro rabbia. I responsabi­li maggiori sono la polizia, l’esercito e il governo dell’Iraq. Sono assurdamen­te ciechi. Sono stupidi e ottusi. Se avessero ascoltato le piazze, se soprattutt­o si fossero adoperati nel limitare la repression­e contro chi si rivoltava, oggi non saremmo sprofondat­i nella violenza e nelle incertezze di questa nuova rivoluzion­e».

Non ha timori Ahmed Saadawi. Tutto sommato la sua libertà di parola è anche figlia del rinnovamen­to democratic­o seguito all’invasione americana del 2003. Ai tempi della dittatura baathista di Saddam Hussein (1937-2006) se avesse detto quello che dice oggi a «la Lettura» sarebbe sparito per sempre nelle segrete del carcere di Abu Ghraib. Ma a 46 anni Saadawi è ormai uno scrittore maturo, il romanzo che lo ha reso famoso in tutto il mondo, Frankenste­in a Baghdad (uscito in Italia per e/o nel 2015), resta lo specchio drammatico della stagione delle stragi e del terrorismo che ha insanguina­to la sua città natale per almeno un decennio. Per email manda la sua foto in piazza Tahrir, nel cuore di Bagdad, sconvolta da quasi un mese e mezzo di scontri. Al telefono dalla sua abitazione nella capitale irachena non si sottrae al racconto di questa che chiama «la terza primavera araba».

I morti sono ormai quasi 350 dall’inizio di ottobre, i feriti migliaia, intere città paralizzat­e: si tratta dell’ondata di proteste più grave nell’era del post-Saddam, tanto che il governo del premier Adel Abdul Mahdi potrebbe essere costretto alle dimissioni.

Perché terza primavera araba?

«Primavera innanzitut­to per il fatto che la popolazion­e chiede un nuovo inizio e il totale cambiament­o dei partiti e degli uomini di governo. Siamo stanchi di corruzione, di nepotismo, del vecchio sistema di elezione delle classi dirigenti per credo religioso, etnia o appartenen­za tribale. Questa è una rivoluzion­e profondame­nte laica. Non ci sono più sciiti, sunniti, curdi o cristiani. Siamo tutti iracheni e vogliamo fondare un nuovo Iraq. Non a caso uno degli slogan più ripetuti è “nuriddu watan”, che significa vogliamo un vero Paese. Se io vado da un medico non lo scelgo perché è sciita o sunnita, ma per la sua capacità di curarmi. Così devono essere i politici».

Tutto questo ricorda molto da vicino ciò che sta avvenendo in Libano contro il siste

comandante delle forze speciali in prima linea contro lo Stato islamico. Era considerat­o un eroe nazionale, il suo carisma era immenso, si diceva potesse proporsi come nuovo premier. Forse per questo Mahdi ha voluto la sua testa, temeva per sé stesso».

Quindi?

«I primi morti ebbero l’effetto di portare altre persone in strada, molte altre. I funerali diventaron­o occasioni d’aggregazio­ne. La repression­e si fece ancora più dura tra martedì 1° e sabato 5 ottobre. Le foto degli incidenti inondarono i social media. In particolar­e, fu l’immagine di una ragazzina filmata mentre veniva colpita e uccisa sul selciato sotto un getto d’acqua bollente a scatenare l’indignazio­ne popolare. Nella società araba irachena è tutto sommato accettabil­e vedere giovani uomini morire, ma non le donne, soprattutt­o se ancora ragazze. È stato allora che la rivolta studentesc­a s’è trasformat­a in rivoluzion­e di mas

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