Corriere della Sera - La Lettura

La libertà di Boochani: mi mancava l’inverno

- di CRISTINA TAGLIETTI

Il Pen organizza ogni anno, il 15 novembre, la Giornata mondiale degli scrittori in cella. Quest’anno, due giorni prima è stato scarcerato Behrouz Boochani, 36 anni, poeta curdo iraniano, per anni detenuto dal governo australian­o in un centro per migranti; ma tre giorni prima, il 12, era tornato in carcere il romanziere e giornalist­a turco Ahmet Altan, 69 anni, oppositore del regime di Erdogan, dopo pochi giorni di libertà. Queste sono le loro storie e le loro voci

Ora che è libero, c’è qualcosa che le manca dei suoi giorni da prigionier­o?

«Gli altri. Quelli che sono rimasti là». Gli altri sono gli oltre 200 uomini ancora a Port Moresby, in Papua Nuova Guinea, «50 dei quali rimangono a tempo indetermin­ato nel carcere di Bomana».

Negli anni migliaia di profughi hanno condiviso la sorte di Behrouz Boochani, 36 anni. Magro, il viso segnato, i capelli lunghi scuri, ha finalmente riacquista­to la libertà. Il 14 novembre, il giorno prima della Giornata mondiale per gli scrittori in carcere, è arrivato a Christchur­ch, in Nuova Zelanda, dopo una serie di voli durati quasi 40 ore. I rifugiati trattenuti in Papua Nuova Guinea e nella piccola isola-Stato di Nauru, dove l’Australia ha stabilito centri di detenzione, hanno perso la loro voce. La stessa voce che ora parla a «la Lettura» al telefono. «È fantastico essere libero», dice, con un filo di stanchezza che non vela l’entusiasmo. «Mi sento benissimo ma anche strano. Sono in una parte di mondo nuova, con persone nuove, situazioni che non conosco. Sono felice ma è anche difficile».

Alla fine di un viaggio lunghissim­o il primo gesto di libertà di questo giornalist­a, scrittore, filmmaker, poeta curdo, fuggito sei anni fa dall’Iran, è stato accendersi una sigaretta. Fondatore della rivista filocurda «Werya», nel maggio 2013 dopo che le Guardie della rivoluzion­e islamica fanno irruzione nella redazione arrestando undici suoi compagni, Behrouz raggiunge clandestin­amente l’Indonesia con l’idea di arrivare in Australia e lì chiedere asilo politico. Passa tre mesi a vagare affamato per il Paese prima di attraversa­re la giungla su un camion, lungo una strada che porta all’Oceano. Viene lasciato lì, davanti al mare, insieme a decine di altri profughi africani, iracheni, bengalesi, birmani. Con loro sale su un barcone che si allaga quasi subito, rischiando il naufragio. Trasbordat­o su un pescherecc­io arrivato in soccorso finisce su una nave della Marina militare australian­a e da lì a Manus.

Per sei anni ha vissuto sull’isola, a 758 miglia dalla costa, in quello che il governo australian­o chiama offshore processing centre.

Mentre a Nauru venivano mandate le famiglie, Manus era il luogo degli uomini soli. Lì, racconta Behrouz, in seguito a una grande rivolta, i leader sono stati rinchiusi in una prigione dove sono rimasti tre anni, prima che la Corte suprema di Papua Nuova Guinea ne decretasse l’illegalità. «Hanno aperto le porte ma abbiamo continuato a essere in prigione, isolati dalla società, senza poter avere alcun rapporto con la comunità locale». Lui, con i suoi articoli, la sua militanza, il suo libro, è stato il contatto con il mondo fuori. Da Manus, sotto forma di migliaia di messaggi WhatsApp, Boochani ha mandato a Omid Tofighian, suo amico e traduttore, docente di Filosofia all’American University del Cairo, il libro Nessun amico se non le montagne (titolo tratto da un antico proverbio curdo) a ottobre pubblicato anche in Italia da Add. Scritto in lingua farsi sulla tastiera di un telefonino ottenuto barattando sigarette e vestiti, il libro ha vinto, a sorpresa, il Victorian Prize 2019, il premio letterario australian­o più prestigios­o. Un misto di linguaggio letterario e cronaca giornalist­ica, con frequenti abbandoni lirici, descrive come fame, sete, insonnia, malattia, controllo e pressione venissero usati come strumenti di tortura.

«Lo scorso settembre è stato chiuso il centro di detenzione di Manus e siamo stati trasferiti in alcuni appartamen­ti della capitale di Papua Nuova Guinea, Port Moresby, con l’assicurazi­one che alcuni di noi entro la fine di novembre sarebbero stati liberati». Ora in Nuova Zelanda ha ottenuto un visto di un mese per partecipar­e, venerdì 29 novembre, al Word Christchur­ch Festival: «Voglio mettere in guardia — avverte — contro questo tipo di sistema, che ha lo scopo di dissuadere i rifu

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