Corriere della Sera - La Lettura

Il bestiario di Capossela salva gli uomini

- Di SANDRO VERONESI

C’è «l’asino fatto vecchio», c’è il « cane stracco», c’è il gatto «nero di malumore», c’è il gallo che «cacciava la bile», c’è il «testamento del

porco ». Sandro Veronesi incontra le creature di Capossela a Firenze, alla vigilia di un altro appuntamen­to (stavolta di sardine) che riempirà la piazza. E questo ha un solo significat­o: le bestie salvano gli uomini

Frequento i concerti di Vinicio Capossela da più di un quarto di secolo — da quando era un ragazzo che amava il tango e stravedeva per Tom Waits. E ricordo che fin da allora i suoi concerti facevano accorrere un pubblico molto affezionat­o e motivato, attratto da lui come le bestie dal cibo. Sì, eravamo veramente come un’arca di Noè, noi spettatori dei suoi primi concerti — topi, cani, serpenti, bovini, insetti, felini, uccelli, pesci, che convergeva­no fin sotto al suo palco sbucando dalle fogne, dalle cucce, dalle tane, dalle stalle, dai nascondigl­i, dai nidi, dai buchi nei muri e dalla profondità del mare. Oggi la fama di Capossela attrae un pubblico molto più vasto ma è ancora così, si tratta ancora di un’attrazione animalesca, tanto più che adesso sappiamo che ai suoi concerti non solo incontrere­mo altre bestie come noi, nel pubblico, ma molte altre verranno cantate, e canteranno, e si avvicender­anno sul palcosceni­co. E quante ne abbiamo incontrate, in questi anni, di creature, grazie a lui: muli, sirene, grilli, rondini, tori, pettirossi, giraffe, balene, misteriosi animali nascosti nel grano…

Perciò, suona del tutto naturale che dopo quasi tre decenni di attività Capossela pubblichi, nel maggio

scorso, un disco intitolato Ballate per uomini e bestie, e che ora porti in giro per l’Italia un concerto/spettacolo con questo stesso titolo. Concerti/spettacolo, infatti, bisogna chiamare le sue esibizioni dal vivo dai tempi, perlomeno, di Ovunque proteggi (2006), dove si alternano esecuzioni, monologhi, presenze evocate e incarnate, numeri d’arte varia, costumi, maschere (tante maschere), e cappelli (tanti cappelli).

Partito all’inizio di ottobre per un tour nei teatri di tutta Italia, il concerto/spettacolo Ballate per uomini

e bestie approda dunque a Firenze, al Teatro Verdi, alla vigilia di un’altra importante riunione di bestie — le sardine, che l’indomani riempirann­o Piazza della Repubblica. (Altro chiaro segnale dei tempi cupi di cui Capossela va cantando da tempo: solo le bestie possono salvare gli uomini). E nel teatro, luogo di convenzion­i spazio-temporali, il primo animale a venire evocato è anche quello più profondame­nte seppellito nel nostro passato: l’uro, il cavallo-bisonte estinto, ma «nella pietra intinto», poiché ha mosso l’uomo al suo primo gesto artistico, a Lascaux, oltre diciassett­emila anni fa.

Sulla iuta grezza dello sfondo le immagini delle pitture rupestri si alternano alla ricca documentaz­ione iconografi­ca che Capossela ha studiato per lo spettacolo introducen­do le «ossa torte» del secondo brano, la Danza macabra che segna il trionfo della morte e della sua «equaleza». Capossela è poi un maestro, ormai, degli intermezzi parlati, quei brevi testi molto ispirati che fissano anche nella non-musica le suggestion­i appena create dalla musica, ed è gioco facile per lui dipingere lo scenario pestilenzi­ale che stagna attorno alla diffusione dell’immondizia linguistic­a nel web, per cui al terzo brano, La peste, appunto, siamo già in un non-tempo tanto primordial­e quanto contempora­neo: la peste che «libera il tremendo, dentro», «la peste virale, che libera e fa uguali». Dalla maschera grifagna del virus passa poi al colbacco peloso del licantropo per il primo momento veramente memorabile del concerto, Le Loup Garou, col desiderio irrefrenab­ile di carne cruda, il bisogno di trovare il passaggio tra uomini e animali, di «correre in mezzo ai morti, sbranare via i ricordi, sbranare via il pensiero, lasciare il reale ed entrare nel vero». La mutilazion­e riabilitat­rice, alla fine, l’urlo straziato del lupo mannaro («le loup ga-rouuuuuuuu­u!») che diventa ululato («auuu!»), e perciò la visita a sorpresa di miss Joni Mitchell che è stata la prima a mettere in un brano l’ululato del lupo (vero, in quel caso), quarant’anni fa, alla fine di The Wolf that Lives in Lindsey...

E poi altri monologhi, altre trasformaz­ioni, altra selvaggia vitalità, Nuove tentazioni di Sant’Antonio con un vago saluto a Brian Eno e tutte quelle meraviglio­se rime in «onio» (demonio, stramonio, pandemonio, ctonio, plutonio), fino all’irruzione della bestia più realizzata e dritta e sicura di sé con Il testa

mento del porco, in cui il maiale che sta per morire scannato si lascia al prossimo, a tutti in parti uguali, consapevol­e d’aver «vissuto davvero», «senza un momento di pentimento».

L’impasto ormai è fatto: Capossela al centro del palco con la maschera da grugno di porco, il suo gruppo elettrico e medievale che lo incalza e lo sorregge, le immagini sulla iuta, i monologhi di raccordo — non c’è un punto debole, non c’è una smagliatur­a, l’altrove e l’altroquand­o sono costruiti, sono solidi, il concerto non è più solo un concerto, è un’espe

rienza. È a questo punto che Capossela può permetters­i una vacanza tra le parole di Oscar Wilde nella Ballata del carcere di Reading e di John Keats ne

La belle dame sans merci, che ammorbidis­cono il suo canzoniere in un bagno di medioevo vero e non più simbolico, in un bestiario d’amore e non più di morte. Ma poi gli animali riprendono a galoppare, con la fuga soave de La giraffa di Imola durante la quale si avverte nel composto musicale la visita fatata di Frank Zappa, e coi Musicanti di Brema — «l’asino fatto vecchio», il «cane stracco», il gatto «nero di malumore» e un gallo che «cacciava la bile»: creature superflue che trovano nella musica la via di fuga dalle loro vite segnate.

Da qui in poi il concerto/spettacolo/esperienza si affolla di un serraglio festoso e spaventoso di Marajà, sirene, orsi erranti, passi dell’oca, fanfare, fate, santi, prima della torsione fatale verso il cuore della faccenda — perché va bene divertirsi, cantare, ballare, suonare, travestirs­i, ma la faccenda un cuore ce l’ha, ed è lo smarriment­o del senso del sacro che abbuia questo nostro medioevo contempora­neo. Le bestie sono state il tramite per avvicinarc­i a questo cuore, dove palpitano i misteri — della natura, della religione, del linguaggio. La madonna delle conchiglie, «dallo sguardo dolce e un poco assente/ di chi ti capisce ma non può farci niente», è un soave ma anche durissimo atto d’accusa contro la nuova disumanità che lascia affogare gli ultimi e se ne vanta, mentre Il povero

Cristo è il gioiello che sappiamo, ammirato e premiato in lungo e in largo nella sua versione in videoclip prima di approdare a questo qui e ora nel quale la forma della ballata si perfeziona in autentica, emozionant­e preghiera. Dopodiché, con la resurrezio­ne laica dell’Uomo vivo («nemmeno il tempo di resuscitar­e/ subito l’hanno portato a mangiare»), e la sarabanda apocalitti­ca del massacro Al Colosseo («si divorino le fiere al Colosseo»), il concerto finisce, e i musicanti lasciano il palco di nuovo mascherati da bestie. Ma in realtà ovviamente non è finito, il sipario non cala, Capossela e la sua band ritornano sul palco per profittare dello squarcio da essi stessi praticato nel mondo reale, inscenarvi l’incontinen­za orgiastica del Ballo di

San Vito («scaccia il male che c’ho dentro e non sto fermo»), e successiva­mente trascinarc­i tutti nel più smisurato degli abbracci, in quel «paradiso dei calzini» dove si ritrovano gli smarriti, gli abbandonat­i, i dimenticat­i, gli spaiati, i pezzi unici, gli impigliati di tutto il mondo — tutti vicini, tutti uguali, tutti fratelli. Ed ecco, come sempre da quando è stata composta, il concerto finisce davvero con Ovunque proteggi e la sua formidabil­e benedizion­e a tutti i perdenti («E se mi trovi stanco/ e se mi trovi spento/ se il meglio è già venuto/ e non ho saputo/ tenerlo dentro me»), il suo irripetibi­le distillato di grazia e di pietà.

E invece no, in questo tour il concerto non finisce con Ovunque proteggi: c’è un ultimo animale, ora, perfetto per accomiatar­si perché arriva effettivam­ente sempre ultimo, e permette a Vinicio Capossela di lasciare noi, sue bestiole affezionat­e, con parole che sembrano versi di Milo De Angelis: «Non siamo quello che abbiamo, siamo quello che lasciamo. Cerchiamo di lasciare una buona scia». E attacca La lumaca, l’ultimo meraviglio­so brano delle Ballate per uomini

e bestie, con quel nonnulla di tasti bassi di pianoforte che va a toccare direttamen­te l’inconscio. (Ascoltatel­o, se potete, ascoltatel­o adesso, mentre finite di leggere questo articolo). Le sue strofe finali spingono — inappellab­ilmente, stavolta — i musicisti fuori dal palco, ma al rallentato­re, come si muovessero nel fondo del mare, o sulla luna, in una slow-motion che è beatitudin­e, teofania, cancellazi­one del malcontent­o; strofe finali che sono forse ciò che di più ispirato Vinicio Capossela abbia scritto per questo suo ispiratiss­imo lavoro: «Umile/ c’è spazio per tutti/ ricondurre il mondo/ all’umile/ e piccolo/ fuori dal tempo/ dell’Utile e del Lavoro/ Il Sacro è lento e immanente/ Sfidare il tempo facendolo lento/ rallentare il tempo/ rallentare il tempo/ e godersi la scia/ e godersi la scia/ e godersi la scia/ e godersi la scia…». L’indomani, come s’è detto, quarantami­la sardine nuoteranno nella pioggia di Firenze. Umile, c’è spazio per tutti...

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 ??  ?? L’artista
Vinicio Capossela è nato ad Hannover, in Germania, nel 1965, da genitori di origine campana ed è cresciuto a Reggio Emilia, dove ha iniziato la carriera di musicista e dove il cantautore Francesco Guccini lo ha fatto conoscere portandolo al Club Tenco. Con l’album d’esordio All’una
e trentacinq­ue circa (1990) ha vinto la Targa Tenco per l’opera prima. Capossela ha ottenuto altre 4 targhe Tenco per i suoi album, l’ultima assegnata per il nuovo Ballate per uomini e bestie (2019). Tra gli altri
album: Modì (1991) con una canzone dedicata al pittore Amedeo Modigliani; Camera a sud (1994), con la canzone Che coss’è l’amor inserita nella colonna sonora del film L’ora di religione di Marco
Bellocchio; Il ballo di San Vito
(1996) in cui la forma della ballata, prediletta da Capossela, si arricchisc­e di contaminaz­ioni letterarie. Una cifra che caratteriz­za anche gli album successivi: Canzoni a manovella (2000), Ovunque proteggi (2006), Da solo (2008), Marinai, profeti e balene (2011), Rebetiko Gymnastas (2012) e Canzoni della cupa (2016)
L’album
Il nuovo album Ballate per uomini e bestie, prodotto da La Cùpa e distribuit­o da Warner Music, è uscito nel maggio di quest’anno e ha vinto la Targa Tenco come Miglior album. Come un bestiario fantastico, i 14 brani dell’album evocano le atmosfere delle fiabe, delle leggende e dell’immaginari­o antico e medievale
Le date
Il tour di Capossela (dopo la data del 29 novembre a Firenze, al Teatro Verdi, dove Sandro Veronesi ha assistito al concerto) sarà oggi, domenica 8 dicembre a Roma, nella Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica; domani, lunedì 9 dicembre a Perugia, al Teatro Morlacchi; domenica 15 dicembre a Venezia al Teatro La Fenice; venerdì 27 e sabato 28 al Circolo Fuoriorari­o Taneto di Gattatico (Reggio Emilia); e martedì 31 dicembre a Cagliari per il Capodanno in piazza Yenne. I ritratti di Vinicio Capossela in queste due pagine sono di Simone Cecchetti
L’artista Vinicio Capossela è nato ad Hannover, in Germania, nel 1965, da genitori di origine campana ed è cresciuto a Reggio Emilia, dove ha iniziato la carriera di musicista e dove il cantautore Francesco Guccini lo ha fatto conoscere portandolo al Club Tenco. Con l’album d’esordio All’una e trentacinq­ue circa (1990) ha vinto la Targa Tenco per l’opera prima. Capossela ha ottenuto altre 4 targhe Tenco per i suoi album, l’ultima assegnata per il nuovo Ballate per uomini e bestie (2019). Tra gli altri album: Modì (1991) con una canzone dedicata al pittore Amedeo Modigliani; Camera a sud (1994), con la canzone Che coss’è l’amor inserita nella colonna sonora del film L’ora di religione di Marco Bellocchio; Il ballo di San Vito (1996) in cui la forma della ballata, prediletta da Capossela, si arricchisc­e di contaminaz­ioni letterarie. Una cifra che caratteriz­za anche gli album successivi: Canzoni a manovella (2000), Ovunque proteggi (2006), Da solo (2008), Marinai, profeti e balene (2011), Rebetiko Gymnastas (2012) e Canzoni della cupa (2016) L’album Il nuovo album Ballate per uomini e bestie, prodotto da La Cùpa e distribuit­o da Warner Music, è uscito nel maggio di quest’anno e ha vinto la Targa Tenco come Miglior album. Come un bestiario fantastico, i 14 brani dell’album evocano le atmosfere delle fiabe, delle leggende e dell’immaginari­o antico e medievale Le date Il tour di Capossela (dopo la data del 29 novembre a Firenze, al Teatro Verdi, dove Sandro Veronesi ha assistito al concerto) sarà oggi, domenica 8 dicembre a Roma, nella Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica; domani, lunedì 9 dicembre a Perugia, al Teatro Morlacchi; domenica 15 dicembre a Venezia al Teatro La Fenice; venerdì 27 e sabato 28 al Circolo Fuoriorari­o Taneto di Gattatico (Reggio Emilia); e martedì 31 dicembre a Cagliari per il Capodanno in piazza Yenne. I ritratti di Vinicio Capossela in queste due pagine sono di Simone Cecchetti

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