Corriere della Sera - La Lettura
Regno Unito e Algeria al voto del 12 dicembre
Il voto del 12 dicembre Il premier conservatore Boris Johnson monopolizza il sostegno alla Brexit e va verso la maggioranza assoluta. In ogni caso, dice lo scrittore Anthony Cartwright, qualunque risultato certificherà la metamorfosi di una nazione
Sono state definite le elezioni più importanti per la generazione nata dopo la Seconda guerra mondiale: perché dal loro esito dipenderà la collocazione della Gran Bretagna in Europ a e n e l mon d o . L a p o s t a i n p a l i o i l 1 2 dicembre è chiara: se Boris Johnson otterrà la maggioranza assoluta — come prevedono i sondaggi — la strada per la Brexit sarà spianata e Londra uscirà dalla Ue il 31 gennaio; se al contrario i conservatori dovessero mancare l’obiettivo, si aprirebbe la porta a un governo di coalizione a guida laburista che nel giro di un anno convocherebbe un secondo referendum, con la possibilità di annullare la Brexit.
Mai la Gran Bretagna si è trovata davanti a un bivio tanto decisivo. Johnson si gioca tutto: e finora ha seguito una strategia che sembra vincente. Ha trasformato i conservatori nel partito della Brexit senza se e senza ma, emarginando i dubbiosi: e in questo modo ha polverizzato la formazione di Nigel Farage, riassorbendone tutti i consensi. Sul fronte opposto, il voto filo-europeo resta diviso fra i laburisti, che non sono riusciti a liberarsi delle loro ambiguità, e i liberaldemocratici che invece hanno assunto una posizione oltranzista che ha alienato loro molte simpatie. È per questo che i sondaggi assegnano unanimi la vittoria a Johnson. Ma come sempre, è presto per dare le cose per scontate: «la Lettura» ne ha discusso con Anthony Cartwright, uno degli esponenti del l a Brex- l i t , l a « l e t te r a t ur a del l a Brexit». Il suo romanzo Il taglio è uscito in Italia lo scorso gennaio per 66thand2nd.
All’estero Johnson è visto come una specie di Trump inglese: immagine corretta?
«È più complicato di così. Boris ha difetti evidenti ma non è l’analogo di Trump, viene da un diverso background e in molti sensi il suo opportunismo è molto inglese, rappresenta il modo in cui il vecchio establishment si è reinventato. Il suo personaggio pubblico è una costruzione: rispetto a Trump, in lui ci sono molte più complessità e sfumature».
Ma ha cavalcato il nazionalismo inglese, che è cosa diversa dall’identità britannica.
«Sì, e non lo vedo come una buona cosa. Ma c’è sempre stato un problema riguardo all’identità inglese, se la confrontiamo con altre coscienze del Regno Unito. Il nazionalismo scozzese può essere percepito come una forza progressista, mentre è impossibile concepire il nazionalismo inglese allo stesso modo. C’è stato un tentativo di farlo negli anni Novanta, con un patriottismo progressista: ma non è quello di Johnson. Anche se Boris ha sfruttato una tradizionale identificazione delle classi popolari inglesi con un’elite conservatrice che in qualche modo le proteggeva».
E infatti il voto operaio si sta spostando verso i conservatori, specialmente nelle regioni industriali del Nord e del Centro.
«Sì, la lista dei seggi che i Tory puntano a conquistare è molto strana da vedere. Ma forse vanno a caccia di fantasmi: è una strategia precaria che si scontra con profonde identificazioni».
Eppure le rilevazioni sociali indicano che se oggi c’è un blocco elettorale inespresso è proprio la «sinistra conservatrice»: statalista in economia, chiusa sul piano socio-cul
turale. Quelli che hanno votato per la Brexit.
«È vero, un personaggio come Cairo, l’operaio protagonista de Il taglio, esprime proprio questo conservatorismo sociale. Ma stiamo in realtà parlando di un gruppo molto specifico, la classe lavoratrice bianca vittima della de-industrializzazione, concentrata nelle Midlands, nello Yorkshire, nel Galles: non è rappres e nt a t i va di t ut t a l ’ I nghilte r r a , perché l a
working class contemporanea è molto più urbana e mista dal punto di vita razziale e culturale, molto più fluida. Cairo è un elemento di una fotografia molto più ampia».
Ma stiamo comunque assistendo a un riallineamento della politica che va al di là delle tradizionali appartenenze di classe.
«Sì, questa è la strategia dei conservatori ma non è chiaro se funzionerà. E più in generale non so se queste elezioni daranno riposte alle domande più rilevanti: su quale sia la nostra posizione nel mondo, particolarmente riguardo alla Brexit. Il voto rischia di essere inconcludente. Ma a un certo punto un nuovo sistema dovrà emergere, è un fenomeno internazionale: forse vedremo nuove configurazioni politiche».
narrativa I sostenitori che vede della il Brexit popolo, propugnano che ha votato una contro la Ue, contrapposto alle élite che tentano di bloccare il divorzio da Bruxelles.
«La questione è: quale popolo e quale élite? È stato molto sconsiderato il modo in cui questi gruppi sono stati definiti nel discorso politico e sui media. Quando parliamo di popolo, parliamo di gruppi molto frammentati. Quelli del People’s Vote, i sostenitori del secondo referendum, sono molto diversi da quelli che sono stati traditi e abbandonati». Infatti chi si oppone alla Brexit incarna la borghesia metropolitana.
«Certamente. Se sei nella posizione di Cairo, per tornare al protagonista del mio libro, l’élite rappresenta il vecchio establishment conservatore ma dal suo punto di vista si sovrappone all’élite liberale che si oppone alla Brexit. È paradossale che la nozione di popolo possa essere usata in maniera così esclusiva. Tutte le parti sono colpevoli: è un fantasma l’idea di questo gruppo collettivo. Ci avviciniamo invece al cuore del problema se pensiamo a come la società si sia frammentata». Frammentata ma anche polarizzata.
«Il problema è come definiamo le questioni cui la società si trova di fronte. È stato tutto definito in maniera binaria: ed è per questo che la Brexit è diventata centrale, è stata posta come un semplice voto su sì e no. È quest’applicazione di domande semplici a problemi complessi che ha aggravato la crisi».
La Brexit nel resto d’Europa è vista a volte come una specie di scelta emotiva: ma non è piuttosto qualcosa che viene da lontano?
«Il modo in cui la domanda è stata posta, forse inavvertitamente, ha creato una riposta emotiva. E la reazione successiva è stata emotiva. Ma la crisi si è aggravata per la mancanza di un’analisi responsabile sulle ragioni per cui siamo arrivati a quel momento. È una tattica tipica dei populisti quella di semplificare, ma ci sono radici più profonde: la relazione fra Gran Bretagna ed Europa è stata complessa e difficile e forse non sempre discussa apertamente qui da noi». Eppure lo stato d’animo prevalente che oggi si percepisce è la stanchezza.
«La stanchezza è evidente, non solo riguardo alla Brexit: ma non dobbiamo confondere il sintomo, la Brexit, con la causa, ossia la crisi economica e le conseguenze della società globalizzata, che in Gran Bretagna si è manifestata in modo specifico e si è cristallizzata attorno alla Brexit. Questa è diventata la metafora di altri fallimenti e malesseri, che riguardano la vasta ineguaglianza economica e sociale».
La Brexit ha portato anche all’emergere per la prima volta di un «demos» europeo in Gran Bretagna.
«Una delle ironie degli ultimi tre anni è l’entusiasmo di una certa parte per l’Unione europea. L’emergere di una coscienza europea è parte del fatto che un vecchio ordine si sta sgretolando: e ci sono tante direzioni in cui si può andare. Le cose sono fluide».