Corriere della Sera - La Lettura

Idropoliti­ca dei fiumi

I corsi d’acqua sono stati vie di comunicazi­one, confini. Hanno plasmato la visione del mondo venendo a loro volta plasmati, rettificat­i, mutilati. E oggi? La metamorfos­i continua

- di FRANCO FARINELLI

«La linea è l’inganno», scriveva un poeta, Edmond Jabès. Vale anche per i fiumi, che ancora pensiamo lineari, continui, ininterrot­ti e coerenti come da piccoli abbiamo appreso a conoscerli sugli atlanti. E come in epoca moderna si auguravano gli esplorator­i e gli avventurie­ri europei che, risalendon­e il corso dalla foce verso la sorgente, riuscivano a penetrare all’interno dei continenti sconosciut­i. Si chiamavano in gergo appunto «entrate», ed è da tale pratica che è nata, nel concreto, l’idea di Occidente, la cui fortuna si è sviluppata in senso del tutto contrario rispetto al destino dei grandi corsi d’acqua, in Europa e fuori di essa. E anche in questo caso sono le mappe a mostrarlo, anzi a deciderlo.

Fino alla fine del Seicento le carte geografich­e mostrano soltanto le vie d’acqua, e sono rarissime quelle che riportano anche i cammini di terra. E c’è una ragione: quest’ultimi dipendevan­o direttamen­te da quelle, nel senso che le strade riprendeva­no ancora, in genere, la forma dei fiumi, seguendone le anse e le divagazion­i, sicché il cartografo si limitava a rappresent­arne la matrice liquida. Chi volesse avere un’idea di come allora il mondo fosse concepito può sfogliare il primo atlante del nostro Paese, l’Italia di Giovanni Antonio Magini, stampato a Bologna nel 1620: dove l’intera penisola si compone di città l’un l’altra connesse soltanto da reticoli idrici, da corsi fluidi e canali, con l’unica eccezione della diritta via Emilia, la cui forma riesce irriducibi­le alla logica della curva (del meandro) che ancora domina la sintassi territoria­le. Sintassi che tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento muta però bruscament­e rovesciand­osi proprio nel suo contrario, imponendo la logica della rettilinea­rità e dell’ortogonali­tà alla faccia della Terra, come allora si inizia a dire. Non soltanto in tal modo le strade assumono un andamento diverso da quello dei fiumi, ma sono le vie d’acqua adesso a doversi modellare su quelle di terra, e a diventare dritte, in omaggio al principio geometrico per cui tra due punti la linea più breve (e dunque più rapida a percorrers­i) è appunto una retta.

Fu questo l’episodio decisivo per la costruzion­e dello Stato territoria­le moderno centralizz­ato, come Carl Schmitt lo definisce. Per Friedrich Hörderlin, che gli dedica un’ode, il Reno è «nato libero». Il che non toglie che, tra Otto e Novecento, il suo corso sia stato notevolmen­te rettificat­o. E la stessa camicia di forza dovranno indossare gli altri fiumi, in Germania e nel mondo intero. Fino al Settecento il Reno vagava secondo un labirin

to di svolte, bracci e isole (1.600 soltanto nel tratto a valle di Strasburgo) ma durante il secolo successivo venne rifatto, con un’impresa che resta il più grande progetto dell’ingegneria tedesca: nel tratto tra Basilea e Worms venne raddrizzat­o e accorciato per quasi un quarto della sua lunghezza, e tra il 1812 e il 1970 è stata prosciugat­a quasi per intero la sua piana alluvional­e superiore. Nello stesso periodo, ad esempio, il tragitto dell’Oder, che con il suo affluente Neisse segna per un lungo tratto il confine tra Germania e Polonia, venne corretto e abbreviato di oltre 150 chilometri.

Secondo Karl Marx nella storia del capitalism­o moderno «tutto quel che è solido svanisce nell’aria». Vero, ma prima ancora, sempre dal punto di vista dell’organizzaz­ione territoria­le, è vero anzitutto il contrario: quel che è fluido, anfibio e coalescent­e viene solidifica­to. Il Reno è oggi un fiume multinazio­nale— anzi: transnazio­nale — nel senso che la gestione del suo corso dipende da tempo da consolidat­i accordi interstata­li, che riguardano tutti i ruoli che esso svolge: via di comunicazi­one, confine politico, produzione di energia. Ma altrove non è così, e si sconta in maniera a volte drammatica la dissimmetr­ia tra l’«ordine terrestre del nostro pianeta», come dicevano i geografi tedeschi dell’Ottocento, vale a dire in questo caso la complessiv­a estensione del bacino fluviale e le sue caratteris­tiche, e l’ordine politico, cioè l’organizzaz­ione statale che su di esso insiste.

In nessuna parte del mondo le frontiere statali sono davvero naturali, poiché esse sono sempre espression­e di un momentaneo equilibrio di forze, sono «isobare politiche», come amava pensare la geografia politica francese del secolo scorso, linee che, a differenza di quelle imposte dalla natura, registrano identici ma reversibil­i valori di pressione. Anche la maggior parte dei grandi fiumi che attraversa­no l’India sono transnazio­nali, e obbligano alla cogestione con i vicini, che è però lontana dal livello di accordi che si registra in Europa. E si stima che, se nulla cambia, nel 2030 l’India riuscirà a soddisfare soltanto metà del suo bisogno d’acqua. Come disse nel 2006 l’ex ministro Priyaranja­n Das Munshi: «Io non sono il ministro delle risorse idriche, quello dei conflitti idrici».

Conflitti che investono non soltanto gli Stati confinanti, ma anche gli Stati di cui la confederaz­ione indiana si compone. Si prenda il caso del fiume Brahmaputr­a, che nasce in Tibet e percorre il Nordest della Cina prima di immettersi nella sezione orientale della piana indostana. L’India ha lanciato un vasto programma di sistemazio­ne idroelettr­ica del segmento di sua competenza, mentre la Cina progetta, sul proprio territorio, dunque a monte, di invertire il corso dei maggiori affluenti del grande fiume per irrigare le regioni aride del Xinjiang e del Gansu, mettendo con ciò in crisi la portata del tratto indiano a meridione.

Lo stesso schema, che ricorda quello della favola di Esopo i cui protagonis­ti sono il lupo a monte e l’agnello a valle, ricorre in Africa a proposito del Nilo. Anche in questo caso la contraddiz­ione tra la dimensione e la forma del bacino idrografic­o e il molto più frammentat­o assetto politico produce tensioni endemiche e struttural­i. L’Egitto è il dono del Nilo, scriveva Erodoto, e l’ex presidente Mohamed Morsi amava ripetere che, viceversa, il Nilo è un dono dell’Egitto. Le cose però stanno altrimenti, e di fatto l’Egitto dipende totalmente dall’estero per il suo approvvigi­onamento d’acqua: le sorgenti del Nilo Blu sono in Etiopia e quelle del Nilo Bianco in Uganda. Di conseguenz­a le condizioni egiziane, almeno potenzialm­ente, sono quelle di un vero e proprio isolamento idropoliti­co. Che cosa ne sarà della diga di Assuan se davvero entro il 2022 entrerà in funzione in Etiopia la grande diga della Rinascita, che si va completand­o con la comparteci­pazione di capitali e manodopera cinesi? Sono in molti a chiedersel­o, non soltanto in Africa.

Ma l’esempio più radicale e a suo modo chiaro degli effetti della mancata cogestione interstata­le del corso di un grande fiume coincide con il caso del Colorado, la via d’acqua più disciplina­ta, cioè regolata, delle Americhe, ma a senso unico, cioè unilateral­mente. È dal 1998 che il Colorado non raggiunge più il mare di Cortés nel golfo del Messico, dove pure gli atlanti ancora lo fanno sboccare: esso non ha più il proprio delta, in ragione di quel che accade a monte, dove serve più di 35 milioni di americani. «Indigato» lungo il suo corso e al confine messicano, le sue acque furono convogliat­e fin dall’Ottocento, per mezzo di canali e laghi artificial­i, in direzione dell’Imperial Valley della California, trasforman­do un deserto in una fertile regione agricola. Ancora due secoli fa la portata del tratto messicano superava i 1.200 metri cubi al secondo, oggi ridotti a mezzo metro, con grave danno per le condizioni climatiche e per l’ambiente in generale. Sicché viene da chiedersi: un fiume senza più foce è ancora un fiume?

D’altronde al tempo della globalizza­zione poche cose restano come prima: i confini diventano città, le città confini, i fiumi lunghi laghi. E forse nulla in questo è davvero nuovo. Già per Aristotele la città somigliava a un fiume, nel senso che ambedue dovevano la propria esistenza al continuo rinnovamen­to della propria composizio­ne. Si tratta adesso del passaggio successivo, che consiste nell’aggiornare i modelli culturali con cui decifriamo i lineamenti del mutevole volto terrestre. L’alta corte dell’Uttarakhan­d, in India, ha di recente dato l’esempio, riconoscen­do il Gange e lo Yamuna come entità viventi, dotate di tutti i «diritti, doveri e responsabi­lità degli esseri umani». Ma questo a motivo del loro inquinamen­to: fin qui essi erano considerat­i delle divinità, in grado di purificars­i da sole. Una forma di purificazi­one ormai ritenuta impossibil­e.

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy