Corriere della Sera - La Lettura
Idropolitica dei fiumi
I corsi d’acqua sono stati vie di comunicazione, confini. Hanno plasmato la visione del mondo venendo a loro volta plasmati, rettificati, mutilati. E oggi? La metamorfosi continua
«La linea è l’inganno», scriveva un poeta, Edmond Jabès. Vale anche per i fiumi, che ancora pensiamo lineari, continui, ininterrotti e coerenti come da piccoli abbiamo appreso a conoscerli sugli atlanti. E come in epoca moderna si auguravano gli esploratori e gli avventurieri europei che, risalendone il corso dalla foce verso la sorgente, riuscivano a penetrare all’interno dei continenti sconosciuti. Si chiamavano in gergo appunto «entrate», ed è da tale pratica che è nata, nel concreto, l’idea di Occidente, la cui fortuna si è sviluppata in senso del tutto contrario rispetto al destino dei grandi corsi d’acqua, in Europa e fuori di essa. E anche in questo caso sono le mappe a mostrarlo, anzi a deciderlo.
Fino alla fine del Seicento le carte geografiche mostrano soltanto le vie d’acqua, e sono rarissime quelle che riportano anche i cammini di terra. E c’è una ragione: quest’ultimi dipendevano direttamente da quelle, nel senso che le strade riprendevano ancora, in genere, la forma dei fiumi, seguendone le anse e le divagazioni, sicché il cartografo si limitava a rappresentarne la matrice liquida. Chi volesse avere un’idea di come allora il mondo fosse concepito può sfogliare il primo atlante del nostro Paese, l’Italia di Giovanni Antonio Magini, stampato a Bologna nel 1620: dove l’intera penisola si compone di città l’un l’altra connesse soltanto da reticoli idrici, da corsi fluidi e canali, con l’unica eccezione della diritta via Emilia, la cui forma riesce irriducibile alla logica della curva (del meandro) che ancora domina la sintassi territoriale. Sintassi che tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento muta però bruscamente rovesciandosi proprio nel suo contrario, imponendo la logica della rettilinearità e dell’ortogonalità alla faccia della Terra, come allora si inizia a dire. Non soltanto in tal modo le strade assumono un andamento diverso da quello dei fiumi, ma sono le vie d’acqua adesso a doversi modellare su quelle di terra, e a diventare dritte, in omaggio al principio geometrico per cui tra due punti la linea più breve (e dunque più rapida a percorrersi) è appunto una retta.
Fu questo l’episodio decisivo per la costruzione dello Stato territoriale moderno centralizzato, come Carl Schmitt lo definisce. Per Friedrich Hörderlin, che gli dedica un’ode, il Reno è «nato libero». Il che non toglie che, tra Otto e Novecento, il suo corso sia stato notevolmente rettificato. E la stessa camicia di forza dovranno indossare gli altri fiumi, in Germania e nel mondo intero. Fino al Settecento il Reno vagava secondo un labirin
to di svolte, bracci e isole (1.600 soltanto nel tratto a valle di Strasburgo) ma durante il secolo successivo venne rifatto, con un’impresa che resta il più grande progetto dell’ingegneria tedesca: nel tratto tra Basilea e Worms venne raddrizzato e accorciato per quasi un quarto della sua lunghezza, e tra il 1812 e il 1970 è stata prosciugata quasi per intero la sua piana alluvionale superiore. Nello stesso periodo, ad esempio, il tragitto dell’Oder, che con il suo affluente Neisse segna per un lungo tratto il confine tra Germania e Polonia, venne corretto e abbreviato di oltre 150 chilometri.
Secondo Karl Marx nella storia del capitalismo moderno «tutto quel che è solido svanisce nell’aria». Vero, ma prima ancora, sempre dal punto di vista dell’organizzazione territoriale, è vero anzitutto il contrario: quel che è fluido, anfibio e coalescente viene solidificato. Il Reno è oggi un fiume multinazionale— anzi: transnazionale — nel senso che la gestione del suo corso dipende da tempo da consolidati accordi interstatali, che riguardano tutti i ruoli che esso svolge: via di comunicazione, confine politico, produzione di energia. Ma altrove non è così, e si sconta in maniera a volte drammatica la dissimmetria tra l’«ordine terrestre del nostro pianeta», come dicevano i geografi tedeschi dell’Ottocento, vale a dire in questo caso la complessiva estensione del bacino fluviale e le sue caratteristiche, e l’ordine politico, cioè l’organizzazione statale che su di esso insiste.
In nessuna parte del mondo le frontiere statali sono davvero naturali, poiché esse sono sempre espressione di un momentaneo equilibrio di forze, sono «isobare politiche», come amava pensare la geografia politica francese del secolo scorso, linee che, a differenza di quelle imposte dalla natura, registrano identici ma reversibili valori di pressione. Anche la maggior parte dei grandi fiumi che attraversano l’India sono transnazionali, e obbligano alla cogestione con i vicini, che è però lontana dal livello di accordi che si registra in Europa. E si stima che, se nulla cambia, nel 2030 l’India riuscirà a soddisfare soltanto metà del suo bisogno d’acqua. Come disse nel 2006 l’ex ministro Priyaranjan Das Munshi: «Io non sono il ministro delle risorse idriche, quello dei conflitti idrici».
Conflitti che investono non soltanto gli Stati confinanti, ma anche gli Stati di cui la confederazione indiana si compone. Si prenda il caso del fiume Brahmaputra, che nasce in Tibet e percorre il Nordest della Cina prima di immettersi nella sezione orientale della piana indostana. L’India ha lanciato un vasto programma di sistemazione idroelettrica del segmento di sua competenza, mentre la Cina progetta, sul proprio territorio, dunque a monte, di invertire il corso dei maggiori affluenti del grande fiume per irrigare le regioni aride del Xinjiang e del Gansu, mettendo con ciò in crisi la portata del tratto indiano a meridione.
Lo stesso schema, che ricorda quello della favola di Esopo i cui protagonisti sono il lupo a monte e l’agnello a valle, ricorre in Africa a proposito del Nilo. Anche in questo caso la contraddizione tra la dimensione e la forma del bacino idrografico e il molto più frammentato assetto politico produce tensioni endemiche e strutturali. L’Egitto è il dono del Nilo, scriveva Erodoto, e l’ex presidente Mohamed Morsi amava ripetere che, viceversa, il Nilo è un dono dell’Egitto. Le cose però stanno altrimenti, e di fatto l’Egitto dipende totalmente dall’estero per il suo approvvigionamento d’acqua: le sorgenti del Nilo Blu sono in Etiopia e quelle del Nilo Bianco in Uganda. Di conseguenza le condizioni egiziane, almeno potenzialmente, sono quelle di un vero e proprio isolamento idropolitico. Che cosa ne sarà della diga di Assuan se davvero entro il 2022 entrerà in funzione in Etiopia la grande diga della Rinascita, che si va completando con la compartecipazione di capitali e manodopera cinesi? Sono in molti a chiederselo, non soltanto in Africa.
Ma l’esempio più radicale e a suo modo chiaro degli effetti della mancata cogestione interstatale del corso di un grande fiume coincide con il caso del Colorado, la via d’acqua più disciplinata, cioè regolata, delle Americhe, ma a senso unico, cioè unilateralmente. È dal 1998 che il Colorado non raggiunge più il mare di Cortés nel golfo del Messico, dove pure gli atlanti ancora lo fanno sboccare: esso non ha più il proprio delta, in ragione di quel che accade a monte, dove serve più di 35 milioni di americani. «Indigato» lungo il suo corso e al confine messicano, le sue acque furono convogliate fin dall’Ottocento, per mezzo di canali e laghi artificiali, in direzione dell’Imperial Valley della California, trasformando un deserto in una fertile regione agricola. Ancora due secoli fa la portata del tratto messicano superava i 1.200 metri cubi al secondo, oggi ridotti a mezzo metro, con grave danno per le condizioni climatiche e per l’ambiente in generale. Sicché viene da chiedersi: un fiume senza più foce è ancora un fiume?
D’altronde al tempo della globalizzazione poche cose restano come prima: i confini diventano città, le città confini, i fiumi lunghi laghi. E forse nulla in questo è davvero nuovo. Già per Aristotele la città somigliava a un fiume, nel senso che ambedue dovevano la propria esistenza al continuo rinnovamento della propria composizione. Si tratta adesso del passaggio successivo, che consiste nell’aggiornare i modelli culturali con cui decifriamo i lineamenti del mutevole volto terrestre. L’alta corte dell’Uttarakhand, in India, ha di recente dato l’esempio, riconoscendo il Gange e lo Yamuna come entità viventi, dotate di tutti i «diritti, doveri e responsabilità degli esseri umani». Ma questo a motivo del loro inquinamento: fin qui essi erano considerati delle divinità, in grado di purificarsi da sole. Una forma di purificazione ormai ritenuta impossibile.