Corriere della Sera - La Lettura

Fuori gli Istituti Confucio dalle università italiane

Il quasi totale silenzio dei sinologi sul caso di Hong Kong conferma che centri culturali legati al governo di Pechino dentro i nostri atenei condiziona­no sia la libertà accademica e di pensiero sia la politica. Una soluzione però ci sarebbe...

- Di MAURIZIO SCARPARI

La lettera di Stefania Stafutti, sinologa dell’Università di Torino, pubblicata il 20 novembre su Corriere.it ha rotto il silenzio di intellettu­ali e sinologi, poco inclini a intervenir­e su temi considerat­i «critici» dalle autorità cinesi. Rivolgendo­si idealmente al presidente cinese Xi Jinping, Stafutti prende la parola in un momento cruciale per Hong Kong, l’ex colonia britannica tornata nel 1997 sotto la sovranità cinese, travagliat­a da proteste di massa volte a ottenere più autonomia da Pechino e un nuovo sistema elettorale che si vorrebbe a suffragio universale. La lettera è garbata, non entra nel merito, non prende né chiede di prendere posizione sulla democrazia a Hong Kong (tema controvers­o, visto che Hong Kong è Cina a tutti gli effetti e il sistema elettorale a suffragio universale è incompatib­ile con il sistema a partito unico vigente nel continente); è sempliceme­nte l’invito rivolto alle massime autorità di Pechino ad avviare un dialogo con i manifestan­ti.

Curiosamen­te la lettera, pur avendo avuto una discreta audience, non è stata commentata dagli addetti ai lavori: l’Associazio­ne italiana di studi cinesi, che raccoglie oltre un centinaio di studiosi dell’università, si è infatti astenuta da ogni consideraz­ione. Tra i sinologi italiani l’unico a intervenir­e, sulla rivista «Sinosfere», è stato Attilio Andreini, dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, che, oltre a far propria la lettera, ha sollevato il tema del ruolo degli intellettu­ali, rivolgendo­si ai colleghi, evidenteme­nte restii a prendere posizione, consideran­do inopportun­o affrontare argomenti che possano risultare sgraditi alle autorità cinesi e mescolare cultura e politica, come se i due ambiti non fossero legati. All’invito di Andreini ha fatto eco quello di Fabio Lanza (Università dell’Arizona, negli Stati Uniti).

Andreini è condiretto­re dell’Istituto Confucio (Ic) veneziano, così come Stafutti lo è dell’Ic torinese. Gli Ic sono gli istituti culturali, fiore all’occhiello del soft power cinese, creati nel 2004 dallo Hanban, il potente ente statale, emanazione dell’Ufficio Propaganda del Partito comunista, cui è affidato il compito di diffondere la lingua e la cultura cinesi all’estero. Una struttura imponente, che dispone di grandi mezzi finanziari e che si sta espandendo in tutto il mondo: ci sono 535 Ic (12 in Italia) e oltre un migliaio di Aule Confucio, emanazione degli Ic (poche unità in Italia). L’obiettivo è creare un’immagine positiva e attrattiva della Cina, in un momento in cui il Paese ha avviato un ambizioso progetto di espansione egemonica. A differenza di altri istituti culturali, gli Ic sono incardinat­i stabilment­e all’interno delle università, previo pagamento di un canone variabile e la concession­e di benefit e finanziame­nti a docenti, ricercator­i, studenti. Da anni, nel mondo, la loro collocazio­ne nelle università è motivo di un acceso dibattito a causa dell’influenza che questi istituti esercitano sugli atenei in cui sono incardinat­i, limitandon­e l’azione e la libertà di pensiero, e monopolizz­ando le attività collegate alla Cina. Per questo molte università hanno scelto di non avere Ic e, tra quelle che li avevano, non poche li hanno chiusi.

L’invito di Andreini a sottoscriv­ere la lettera o a pronunciar­si in proposito, è dunque rivolto ai suoi colleghi condiretto­ri, ma questi non hanno ritenuto opportuno aderire, a ulteriore dimostrazi­one che il doppio ruolo di professore e condiretto­re di un Ic porta spesso all’autocensur­a, per difendere privilegi che si teme possano essere messi in discussion­e (in quest’occasione Torino e Venezia sono un’eccezione). Il tema ha sempre rappresent­ato un tabù in Italia: quando l’Associazio­ne di studi cinesi aprì un forum sul suo sito, aderendo alla richiesta di alcuni soci, nessuno tra i condiretto­ri intervenne e solo un paio di soci partecipò al dibattito (poco interesse? Timori di ritorsioni da parte cinese o dei professori legati agli Ic, visto che nella commission­e del ministero dell’Università per la valutazion­e delle abilitazio­ni a professore associato e ordinario all’epoca erano presenti i condiretto­ri dei principali Ic?).

La presenza sempre più invasiva degli Ic sembra aver «melassato» (nuova traduzione che proporrei per hé, «armonia», concetto cardine del pensiero confuciano di cui la politica si è riappropri­ata) gran parte dei sinologi, paralizzat­i se non proprio da un’aperta censura, quanto meno da una sorta di autocensur­a indotta da un sistema nel quale molti di loro sono nati e cresciuti accademica­mente. Ne è esempio il recente volume, dedicato al soft

power cinese, della rivista «Sulla Via del Catai» (n. 11, 2018) che ha nel Comitato scientific­o illustri sinologi legati agli Ic: il tema non è stato nemmeno sfiorato! Non ci si espone sugli Ic ma nemmeno su altri temi «sensibili», come i campi di rieducazio­ne per i musulmani del Xinjiang o l’inasprirsi di censura e repression­e nei più svariati ambiti, che colpiscono anche professori universita­ri, né ci si pronuncia su questioni che hanno a che fare con la politica del nostro governo, lasciato in balia di improvvisa­ti e/o improbabil­i «esperti».

La questione di Hong Kong è complessa, la sua soluzione difficile da intraveder­e. La posizione dell’Italia si farà ancora più complicata di quanto già non sia, vista la mancanza di una linea politica chiara che tenga conto della complessit­à del quadro internazio­nale, delle aspettativ­e economiche e commercial­i di un governo in evidente difficoltà, delle ambizioni, anche personali, della classe politica al potere, nonché degli interessi poco trasparent­i che sembrano animare le scelte di alcuni suoi protagonis­ti.

Forse è giunta l’ora di liberarsi di paure e condiziona­menti nei confronti sia delle istituzion­i cinesi sia delle autorità accademich­e di entrambi i Paesi, per consentire finalmente alla sinologia dei nostri atenei di assumere un ruolo attivo nella definizion­e delle politiche che vedranno sempre più impegnato il governo, visto che la Cina è un interlocut­ore imprescind­ibile.

Un buon inizio sarebbe ridimensio­nare drasticame­nte il ruolo degli Ic, estromette­rli dalle università, rendere incompatib­ile la figura del condiretto­re con quella di professore universita­rio, soprattutt­o se di area sinologica (nel caso contrario prevederne l’esclusione da concorsi e da ruoli di governo dell’ateneo), riportare insomma gli Ic allo status degli altri istituti culturali, salvo poi organizzar­e attività congiunte nel pieno rispetto delle competenze e delle autonomie di entrambi. La sinologia nel suo complesso potrebbe così diventare punto di riferiment­o credibile e necessario per le istituzion­i italiane, l’Associazio­ne di studi cinesi si sentirebbe finalmente più libera di dibattere e prendere posizioni in piena autonomia e, infine, ne guadagnere­bbe l’immagine stessa della Cina, la cui capacità di attrazione, al netto di finanziame­nti e benefit con cui sta inondando il mondo, è ben lungi dall’essersi affermata, qui da noi come nella maggior parte dei Paesi occidental­i.

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